“Di me non esiste alcun autoritratto. Io non mi interesso della mia persona come oggetto di pittura, mi interessano di più le altre persone, soprattutto se di sesso femminile, ma ancora di più mi interessano altre forme. Sono convinto che la mia persona non sia particolarmente interessante. Sono un pittore che dipinge proprio tutti i giorni, dalla mattina fino alla sera. Figure e paesaggi, un po’ meno i ritratti.”
(Gustav Klimt)
Nel clima di polemica e di ribellione che caratterizzò il primo periodo della Secessione, ebbe luogo lo scandalo dei dipinti per l’Università di Vienna.
Nel 1894 il Ministero per l’istruzione incaricò Matsch e Klimt di decorare il soffitto dell’aula magna dell’Università. Nella primavera del 1900, durante la settima mostra della Secessione, venne esposto la Filosofia, il primo dei tre pannelli progettati da Klimt.
In quest’opera Klimt propose una visione da inferno dantesco dell’umanità: corpi nudi avvitati a grappolo che galleggiano dolenti nel vuoto cosmico. Dalle tenebre emerge solo una Sfinge maestosa : “il globo terrestre, l’enigma del mondo” – come recitava il catalogo dell’esposizione. Una figura dallo sguardo cieco e dai colori sfocati che pare indifferente al dramma umano che si svolge dinnanzi a lei. Nel bordo inferiore della tela appare una donna misteriosa e ammantata di nero: la Sapienza dallo sguardo di veggente che sembra penetrare oltre la visione dello spettatore.
Tale rappresentazione suscitò notevoli critiche, non era certo l’immagine del trionfo e dell’apoteosi dei lumi che avrebbero voluto i professori viennesi.
Klimt, privando l’uomo della rasserenante facoltà di comprensione della realtà, mise in scena un’umanità alla deriva: corpi indifesi in uno spazio inaccessibile alla razionalità.
Il 24 marzo del 1900, undici membri dell’Università firmarono una petizione contro l’opera, dicendosi contrari alla collocazione del dipinto nell’aula magna. Il dibattito fu subito connotato da toni accesi ed iracondi: lo scontro verteva soprattutto su valori estetici ed aveva, inoltre, forti risvolti politici.
“Non è né alla nudità nelle arti, né alla libertà artistica che ci opponiamo, ma alla sozzura nell’arte”, con queste dure parole Friedrich Jodl si mise alla testa delle proteste contro la Filosofia. I difensori di Klimt, cappeggiati da Wickoff, insinuarono che le accuse di sozzura e bruttezza fossero solamente il risultato di una non conoscenza e di un disinteresse per la nuova arte, ribadendo, così, la vittoria dello psicologismo sull’estetismo assoluto dello storicismo.
La querelle passò molto presto dalle sedi istituzionali alla stampa. Di fronte a tale ridda di polemiche, il ministro von Hartel decise di sospendere il giudizio in attesa di vedere collocate le tele nella loro sede definitiva.
Klimt, nel frattempo, per nulla intimorito dal clima rovente che aveva contribuito a creare, nel marzo del 1901, durante la decima mostra della Secessione, presentò il secondo pannello per l’Università, la Medicina.
Anche qui invece di celebrare il trionfo della scienza ed il suo potere terapeutico, Klimt raffigurò l’eterno ed insensato trapassare dell’esistenza dalla vita alla morte: giovani, vecchi, bambini, donne e uomini nudi fluttuano solitari nello spazio siderale, mentre la figura della morte li avvolge con il suo velo nero. In primo piano Igea, un’altra sacerdotessa, funge da tramite tra questo teatro del dramma umano e lo spettatore.
Le polemiche, anche in questo caso, si fecero subito sentire sia a livello istituzionale che da parte del pubblico, quest’ultimo offeso dalla moltitudine di nudi presenti nell’opera.
Klimt, di personalità schiva ed indifferente alle controversie, affermò in un’intervista sul Wiener Morgen-Zeitung: “una volta terminato un quadro non ho voglia di perdere dei mesi interi a giustificarlo davanti alla gente. Quello che conta per me non è a quanti piaccia ma a chi.”
La vicenda portò però ad una frattura insanabile tra l’artista e le istituzioni: dopo aver visto rifiutata la sua ratifica a professore dell’Accademia di belle arti, Klimt si rifugiò nella sua arte, mostrando un atteggiamento sempre più ripiegato in se stesso a volte espresso in ira allegorica, ma, molto più spesso, in un silenzioso isolamento artistico.
Nella Filosofia e nella Medicina, Klimt interpretò il tema proposto dal Ministero, “Il trionfo della luce sulle tenebre dell’ignoranza”, in senso contrario alla fiducia nelle capacità razionali dell’uomo tipica del conformismo positivista borghese del tempo alimentando, così, un clima di polemica e critica generalizzata. Anziché la celebrazione del potere risolutorio della scienza, fu rappresentata, infatti, la sua tragica impotenza a liberare il mondo dal dolore: i dipinti dichiaravano che la filosofia non può far comprendere all’uomo il suo destino, né il progresso medico può sconfiggere la morte, e che il diritto non è che la legittimazione della violenza e non può difendere né dal sopruso né dalle Furie, le dee della vendetta e della colpa.
Fu proprio la Giurisprudenza l’autentica pietra dello scandalo. In quest’opera, infatti, Klimt ritrasse non il trionfo di un’importante istituzione sociale, bensì una forza cieca e crudele, spietata di fronte ai volti impassibili dei giudici.
La tela si presenta divisa in due parti: in quella superiore risiedono le tre componenti ideali della giustizia, la Verità, la Giustizia e la Legge, imbalsamate in un mosaico bizantino, al disotto sono poste le teste disseccate dei giudici e, nella parte bassa, si svolge il dramma vero e proprio della punizione.
Tre furie, ritratte come delle belle e lascive donne fatali fin de siècle, presiedono alla violenta vendetta a cui è sottoposto un vecchio indifeso che attende il verdetto come in un incubo kafkiano.
Molti hanno voluto scorgere nella figura del vecchio un’allusione alla figura dello stesso Klimt, colpito dall’incomprensione del pubblico e dal rifiuto dei suoi stessi committenti.
Klimt, infatti, si sentì sottoposto ad un giudizio ingiusto ed inappellabile: “attraverso ripetute allusioni il ministero mi ha fatto capire che sono diventato motivo di imbarazzo. Ma per un artista, nel senso più elevato del termine, non c’è niente di più penoso di creare delle opere, e per questo ricevere un compenso, da un committente che non gli offra col cuore e con la ragione il suo pieno appoggio.” Queste parole possono aiutarci a comprendere lo sfrontato pessimismo di cui è improntata quest’opera che fu l’ultimo impegno pubblico di Klimt ad essa, infatti, non seguirono altre commesse statali.
Questo pannello segnò un’evoluzione nell’arte di Klimt: il definitivo abbandono di quei valori pittorico-atmosferici che permeavano ancora Filosofia e Medicina, e la scelta della stilizzazione della superficie a collage di motivi ornamentali, di un colore uniforme e del tutto atimpressionista. La macchina scenografica ed illustrativa dell’allegoria si è assottigliata in un tessuto di incastri, in un puzzle ambiguo e ossessivo: l’ornamento diventa struttura e messaggio.
La reazione, in questo caso, raggiunse gli apici della violenza. Il 3 aprile 1905 Klimt, che oramai aveva deciso di rinunciare all’incarico, si offrì di ricomprare dalla Stato austriaco le sue opere: “ne ho abbastanza della censura adesso faccio da me. Desidero liberarmene. Desidero liberarmi da tutte queste stupidaggini che mi ostacolano e mi impediscono di lavorare.”
Klimt, con l’appoggio del suo mecenate August Lederer, riuscì a riacquistare le sue tele che, sul finire della seconda guerra mondiale dopo varie vicissitudini, vennero nascoste nel castello di Immendorf, di proprietà della famiglia Freudenthal.
In seguito ad un incendio, probabilmente appiccato dalle truppe tedesche in fuga, i quadri andarono completamente distrutti: si concludeva così, con una sorta di rogo sacrificale, uno scandalo che aveva alimentato Vienna per numerosi decenni.
Una vicenda, questa, che di per sé è esemplificativa del clima viennese di fine secolo; alla fine gli opposti si ricongiungono: amore e morte, eros e thanatos, generazione e distruzione.