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Gustav Klimt e i pannelli per l’Università di Vienna: una querelle des Anciens et des Modernes

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“Di me non esiste alcun autoritratto. Io non mi interesso della mia persona come oggetto di pittura, mi interessano di più le altre persone, soprattutto se di sesso femminile, ma ancora di più mi interessano altre forme. Sono convinto che la mia persona non sia particolarmente interessante. Sono un pittore che dipinge proprio tutti i giorni, dalla mattina fino alla sera. Figure e paesaggi, un po’ meno i ritratti.”

(Gustav Klimt)

Gustav Klimt, Medicina, particolare di Igea, 1900 (opera distrutta nel 1945)

Gustav Klimt, Medicina, particolare di Igea, 1900 (opera distrutta nel 1945)

 

Nel clima di polemica e di ribellione che caratterizzò il primo periodo della Secessione, ebbe luogo lo scandalo dei dipinti per l’Università di Vienna.

Nel 1894 il Ministero per l’istruzione incaricò Matsch e Klimt di decorare il soffitto dell’aula magna dell’Università. Nella primavera del 1900, durante la settima mostra della Secessione, venne esposto la Filosofia, il primo dei tre pannelli progettati da Klimt.

In quest’opera Klimt propose una visione da inferno dantesco dell’umanità: corpi nudi avvitati a grappolo che galleggiano dolenti nel vuoto cosmico. Dalle tenebre emerge solo una Sfinge maestosa : “il globo terrestre, l’enigma del mondo” – come recitava il catalogo dell’esposizione. Una figura dallo sguardo cieco e dai colori sfocati che pare indifferente al dramma umano che si svolge dinnanzi a lei. Nel bordo inferiore della tela appare una donna misteriosa e ammantata di nero: la Sapienza dallo sguardo di veggente che sembra penetrare oltre la visione dello spettatore.

Gustav Klimt, Filosofia, 1900 (opera distrutta nel 1945)

Gustav Klimt, Filosofia, 1900 (opera distrutta nel 1945)

 

Tale rappresentazione suscitò notevoli critiche, non era certo l’immagine del trionfo e dell’apoteosi dei lumi che avrebbero voluto i professori viennesi.

Klimt, privando l’uomo della rasserenante facoltà di comprensione della realtà, mise in scena un’umanità alla deriva: corpi indifesi in uno spazio inaccessibile alla razionalità.

Il 24 marzo del 1900, undici membri dell’Università firmarono una petizione contro l’opera, dicendosi contrari alla collocazione del dipinto nell’aula magna. Il dibattito fu subito connotato da toni accesi ed iracondi: lo scontro verteva soprattutto su valori estetici ed aveva, inoltre, forti risvolti politici.

“Non è né alla nudità nelle arti, né alla libertà artistica che ci opponiamo, ma alla sozzura nell’arte”, con queste dure parole Friedrich Jodl si mise alla testa delle proteste contro la Filosofia. I difensori di Klimt, cappeggiati da Wickoff, insinuarono che le accuse di sozzura e bruttezza fossero solamente il risultato di una non conoscenza e di un disinteresse per la nuova arte, ribadendo, così, la vittoria dello psicologismo sull’estetismo assoluto dello storicismo.

La querelle passò molto presto dalle sedi istituzionali alla stampa. Di fronte a tale ridda di polemiche, il ministro von Hartel decise di sospendere il giudizio in attesa di vedere collocate le tele nella loro sede definitiva.

Gustav Klimt, Medicina, 1900 (opera distrutta nel 1945)

Gustav Klimt, Medicina, 1900 (opera distrutta nel 1945)

 

Klimt, nel frattempo, per nulla intimorito dal clima rovente che aveva contribuito a creare, nel marzo del 1901, durante la decima mostra della Secessione, presentò il secondo pannello per l’Università, la Medicina.

Anche qui invece di celebrare il trionfo della scienza ed il suo potere terapeutico, Klimt raffigurò l’eterno ed insensato trapassare dell’esistenza dalla vita alla morte: giovani, vecchi, bambini, donne e uomini nudi fluttuano solitari nello spazio siderale, mentre la figura della morte li avvolge con il suo velo nero. In primo piano Igea, un’altra sacerdotessa, funge da tramite tra questo teatro del dramma umano e lo spettatore.

Le polemiche, anche in questo caso, si fecero subito sentire sia a livello istituzionale che da parte del pubblico, quest’ultimo offeso dalla moltitudine di nudi presenti nell’opera.

Klimt, di personalità schiva ed indifferente alle controversie, affermò in un’intervista sul Wiener Morgen-Zeitung: “una volta terminato un quadro non ho voglia di perdere dei mesi interi a giustificarlo davanti alla gente. Quello che conta per me non è a quanti piaccia ma a chi.”

La vicenda portò però ad una frattura insanabile tra l’artista e le istituzioni: dopo aver visto rifiutata la sua ratifica a professore dell’Accademia di belle arti, Klimt si rifugiò nella sua arte, mostrando un atteggiamento sempre più ripiegato in se stesso a volte espresso in ira allegorica, ma, molto più spesso, in un silenzioso isolamento artistico.

Nella Filosofia e nella Medicina, Klimt interpretò il tema proposto dal Ministero, “Il trionfo della luce sulle tenebre dell’ignoranza”, in senso contrario alla fiducia nelle capacità razionali dell’uomo tipica del conformismo positivista borghese del tempo alimentando, così, un clima di polemica e critica generalizzata. Anziché la celebrazione del potere risolutorio della scienza, fu rappresentata, infatti, la sua tragica impotenza a liberare il mondo dal dolore: i dipinti dichiaravano che la filosofia non può far comprendere all’uomo il suo destino, né il progresso medico può sconfiggere la morte, e che il diritto non è che la legittimazione della violenza e non può difendere né dal sopruso né dalle Furie, le dee della vendetta e della colpa.

Fu proprio la Giurisprudenza l’autentica pietra dello scandalo. In quest’opera, infatti, Klimt ritrasse non il trionfo di un’importante istituzione sociale, bensì una forza cieca e crudele, spietata di fronte ai volti impassibili dei giudici.

Gustav Klimt, Giurisprudenza, 1900 (opera distrutta nel 1945)

Gustav Klimt, Giurisprudenza, 1900 (opera distrutta nel 1945)

 

La tela si presenta divisa in due parti: in quella superiore risiedono le tre componenti ideali della giustizia, la Verità, la Giustizia e la Legge, imbalsamate in un mosaico bizantino, al disotto sono poste le teste disseccate dei giudici e, nella parte bassa, si svolge il dramma vero e proprio della punizione.

Tre furie, ritratte come delle belle e lascive donne fatali fin de siècle, presiedono alla violenta vendetta a cui è sottoposto un vecchio indifeso che attende il verdetto come in un incubo kafkiano.

Molti hanno voluto scorgere nella figura del vecchio un’allusione alla figura dello stesso Klimt, colpito dall’incomprensione del pubblico e dal rifiuto dei suoi stessi committenti.

Klimt, infatti, si sentì sottoposto ad un giudizio ingiusto ed inappellabile: “attraverso ripetute allusioni il ministero mi ha fatto capire che sono diventato motivo di imbarazzo. Ma per un artista, nel senso più elevato del termine, non c’è niente di più penoso di creare delle opere, e per questo ricevere un compenso, da un committente che non gli offra col cuore e con la ragione il suo pieno appoggio.” Queste parole possono aiutarci a comprendere lo sfrontato pessimismo di cui è improntata quest’opera che fu l’ultimo impegno pubblico di Klimt ad essa, infatti, non seguirono altre commesse statali.

Questo pannello segnò un’evoluzione nell’arte di Klimt: il definitivo abbandono di quei valori pittorico-atmosferici che permeavano ancora Filosofia e Medicina, e la scelta della stilizzazione della superficie a collage di motivi ornamentali, di un colore uniforme e del tutto atimpressionista. La macchina scenografica ed illustrativa dell’allegoria si è assottigliata in un tessuto di incastri, in un puzzle ambiguo e ossessivo: l’ornamento diventa struttura e messaggio.

La reazione, in questo caso, raggiunse gli apici della violenza. Il 3 aprile 1905 Klimt, che oramai aveva deciso di rinunciare all’incarico, si offrì di ricomprare dalla Stato austriaco le sue opere: “ne ho abbastanza della censura adesso faccio da me. Desidero liberarmene. Desidero liberarmi da tutte queste stupidaggini che mi ostacolano e mi impediscono di lavorare.”

Klimt, con l’appoggio del suo mecenate August Lederer, riuscì a riacquistare le sue tele che, sul finire della seconda guerra mondiale dopo varie vicissitudini, vennero nascoste nel castello di Immendorf, di proprietà della famiglia Freudenthal.

In seguito ad un incendio, probabilmente appiccato dalle truppe tedesche in fuga, i quadri andarono completamente distrutti: si concludeva così, con una sorta di rogo sacrificale, uno scandalo che aveva alimentato Vienna per numerosi decenni.

Una vicenda, questa, che di per sé è esemplificativa del clima viennese di fine secolo; alla fine gli opposti si ricongiungono: amore e morte, eros e thanatos, generazione e distruzione.

Gustav Klimt, L'ostilità delle forze avverse (Malattia, Follia e Morte e le tre Gorgoni), Fregio di Beethoven, 1902

Gustav Klimt, L’ostilità delle forze avverse (Malattia, Follia e Morte e le tre Gorgoni), Fregio di Beethoven, 1902

 



Antoni Gaudì: un geniale interprete dell’orgoglio catalano

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Antoni Gaudì, Casa Batlò – particolare dei comignoli, 1904-1907

“L’intelligenza dell’uomo può attuarsi solamente nel piano, è a due dimensioni: risolve equazioni a una incognita, di primo grado. L’intelligenza angelica è a tre dimensioni, si attua direttamente nello spazio.”

(Antoni Gaudì)

Geniale visionario, profetico veggente, portentoso ed eclettico, Antoni Gaudì fu una delle personalità più ispirate e creative dell’architettura modernista di fine Ottocento.

La sua opera, così strabiliante e prodigiosa, affascinò numerosi artisti proprio per la sua capacità di unificare un’inaudita libertà formale con un’esatta padronanza delle tecniche costruttive. In questo senso egli fu l’ultimo degli antichi ed il primo dei moderni, l’artefice di un mondo in cui l’intuito si intrecciò alla ragione, anticipatore di molte invenzioni delle avanguardie novecentesche.

Un’architettura fatta di forme organiche e zoomorfe, di terra e di colore, di teoremi celesti e di pietre viventi, un linguaggio pregno di devozione per la natura e d’amore per la terra natia, di grande sapienza tecnica e di straordinarie doti spaziali, di sublimità decorativa e di magmatico simbolismo.

Gaudì seppe creare un suo personale mondo, un mondo serrato e chiuso che, sebbene si offrì come stimolo, tuttavia non potè essere un esempio orientato per la creazione di una scuola o di un movimento.

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Antoni Gaudì, Parc Güell – particolare della scultura di una salamandra, 1900-1914

Antoni Gaudì nacque nel 1852 a Reus, un piccolo centro catalano poco distante da Terragona. In questi anni la Catalogna viveva una stagione di straordinaria vitalità economica, culturale, sociale e politica, in parallelo al contemporaneo declino della Spagna a livello di potenza internazionale: una terra che non si era mai abbandonata al potere accentratore di Madrid e che era riuscita a conservare una certa autonomia, divenendo, nella seconda metà dell’Ottocento, la regione più avanzata della Spagna.

L’orgoglioso rinascimento della Catalogna e della sua capitale, Barcellona, venne definito con il termine Renaixença, indicando un rinnovato orgoglio dei valori della catalanità tanto da promuovere il catalano come lingua della cultura.

Quando, nel 1869, il giovane Gaudì giunse a Barcellona per intraprendere i suoi studi di architettura, si trovò dinnanzi ad una città che stava crescendo ad un ritmo vertiginoso, nell’irrefrenabile cammino verso una società industriale e moderna.

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Antoni Gaudì, Casa Batlò – particolare dell’interno, 1904-1907

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, il Modernismo (la versione catalana dell’Art Nouveau) trasformò la città di Barcellona.

La volontà di rompere con la tradizione passata, l’ansia di rinnovamento e di modernità, la ricerca di uno stile nuovo, permearono tutte le arti. In tal senso l’architettura si pose come esempio di arte ai suoi massimi livelli, riuscendo ad integrare la frenesia costruttiva all’urgenza decorativa.

In questo panorama, anche e soprattutto grazie allo sviluppo di una danarosa classe di committenti borghesi, Gaudì si distinse tra gli architetti dell’epoca , per il personalissimo stile e l’assoluta originalità delle sue opere.

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Antoni Gaudì, Casa Milà (detta La Pedrera) – particolare dei comignoli, 1905-1912

Nel 1878, poco dopo la laurea in architettura, Gaudì fece la conoscenza di Eusebi Güell, un grande imprenditore e politico, che lo adottò come architetto di fiducia fino alla morte di quest’ultimo nel 1918.

Tra i due nacque un rapporto basato sull’amicizia e sulla stima reciproca: Güell era un mecenate colto e liberale, tanto prodigo nei confronti delle sue dispendiose esigenze costruttive, quanto disponibile a condividere le eccentriche scelte estetiche di Gaudì.

L’arte di Gaudì potè così avvalersi, per la sua affermazione, di questo clima mondano e borghese, culturalmente vivace ed economicamente spensierato, dove, nella cornice di un rinnovato scenario internazionale, un fervente catalanismo cercava in mitici orizzonti la sua legittimazione storica.

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Antoni Gaudì, Finca Güell – particolare del cancello col dragone, 1884-1887

Antoni Gaudì non fu un intellettuale od un teorico: non pubblicò manifesti, articoli o dichiarazioni di intenti, nè tenne conferenze pubbliche. Il suo pensiero si tradusse esclusivamente nella sua arte e nella sua intuitiva capacità di trovare le relazioni tra le cose, in un’insolita ed eccezzionale sintonia con il mondo della natura.

“Originalidad es volver al origen”, affermava spesso Gaudì, intendendo che il presupposto delle realizzazioni umane si attua nel percorrere a ritroso il cammino della Creazione: per proseguire l’opera della Natura è necessario accordarsi alle sue leggi interiori, poichè “la Creazione continua incessantemente per mezzo degli uomini; l’uomo non crea.”

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Antoni Gaudì, Sagrada Familìa – particolare dell’interno, iniziata nel 1882

“Ogni volta che entro nel recinto della Sagrada Familìa provo la stessa sensazione di uscire dal tempo… Da quel momento mi vedo entrare nell’ambito in cui appare soltanto un’ala spiegata per metà, che in modo insolito è sorta dal seno della terra, in cui giace quello che manca della colossale proporzione del tutto.”

(Joan Maragall)

Negli ultimi anni della sua esistenza, Gaudì fu sempre più ossessionato dalla costruzione della Sagrada Familìa, un’opera infinita che, pian piano, venne a catalizzare e a catturare tutte le energie dell’artista. Essa si impose come una sorta di imperativo etico e religioso nella vita di Gaudì: da opera architettonica si trasformò, ben presto, in un omaggio a Dio, un altare perpetuo alla grandezza del Creatore.

Antoni Gaudì trascorse gli ultimi mesi di vita  in un misero alloggio allestisto presso il cantiere della Sagrada Familìa, sempre più solitario ed isolato dal mondo.

Nel 1926 venne investito da un tram, durante un suo quotidiano tragitto per partecipare alle funzioni religiose in una chiesetta limitrofa. Scambiato per un barbone, venne trasferito all’ospedale dove morì pochi giorni dopo.

Gaudì morì senza lasciare discepoli: figura a metà tra il mito e la santità, avrà numerosi estimatori, imitatori ed esegeti che, spinti da una fanatica devozione, ne raccolsero le oracolari sentenze.

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Antoni Gaudì, Casa Batlò – particolare della facciata esterna, 1904-1907

Le sue opere – disse Salvador Dalì, un altro grande artista catalano – si caratterizzarono per il “carattere nuritivo, commestibile di questa specie di case, le quali non sono altro che le prime case commestibili, i primi e unici edifici erotizzanti, la cui esistenza implica questa funzione urgente e così necessaria all’immaginazione amorosa: poter realmente mangiare l’oggetto del desiderio.”

(Salvador Dalì, Della bellezza terrificante e commestibile dell’architettura Modern Style, numero 3 della rivista Minotaure, 12 dicembre 1933)

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Antoni Gaudì, Parc Güell – particolare dei mosaici, 1900-1914


Vittorio Corcos: sogno di una Belle Époque

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Vittorio Corcos, In lettura sul mare, 1910

 

Un nome quasi sconosciuto, adombrato dai più noti Boldini, Sargent, de Nittis, Bonnat e Signorini, ma che, come questi, si ritrovò ad essere l’interprete dell’incanto di un’epoca che si andava volgendo verso la modernità.

Il ricordo di Vittorio Matteo Corcos, pittore prolifico e versatile, rimane, infatti, legato alla sua attività di ritrattista mondano, compiacente interprete della sofisticata e vezzosa ricca borghesia di fine Ottocento.

In un tempo in cui si avvertiva il desiderio di autocelebrare il proprio status, chi ne aveva le possibilità cercava un artista per rendersi immortale: ceti emergenti, dame della nobiltà, re e regine, furono i protagonisti delle tele di Corcos, istantanee di una clientela esclusiva e selezionata.

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Vittorio Corcos, L’incontro, 1888

Nato nel 1859 a Livorno, dimostrò, fin da giovane, una spiccata predisposizione per l’arte.

Frequentò le scuole di Giuseppe Baldini, primo maestro di Giovanni Fattori, e di Domenico Morelli per poi trasferirsi, nel 1880, nella ville lumière, la capitale del gusto e dello stile.

A Parigi Corcos si inserì con successo nell’elite artistica, affermandosi nei salotti più prestigiosi della città.

La sua pittura brillante e piacevole allo sguardo gli fruttò numerose commissioni e consolidò la sua fama di autore di ritratti.

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Vittorio Corcos, La morfinomane, 1899

Le mode, le pose, gli eccessi, la vita pubblica e quella privata, i giochi, lo svago, tra vanità e lusso, alcool e morfina, vengono decantati nelle opere di Corcos che, audace e spavaldo, si spinse a ritrarre eroine sull’orlo della perdizione come ne La morfinomane.

L’opera di Corcons mette in mostra vizi e virtù della modernità, le ambiguità di una borghesia fiduciosa nel progresso dai risvolti delittuosi e torbidi: la frivola euforia della mondanità ove già serpeggia il virus di un malessere che sfocerà, poi, nel dramma della Grande Guerra.

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Vittorio Corcos, Sogni, 1896

La sua maniera dolce e ben finita divenne l’emblema di questo mondo dalle belle apparenze tanto che Sogni, opera del 1896, fu assunta come icona dell’atmosfera di fine secolo, sospesa tra sogni dorati e una sottile inquietudine.

Una bella ragazza, seduta su una panchina, ci guarda senza vederci, tutta assorta nei suoi pensieri; le gambe accavallate, un braccio a sorreggere il mento, accanto a lei un ombrellino, il cappello di paglia, tre libri e una rosa che va sfiorendo.

A lungo la critica si interrogò sui reconditi sogni di questa fanciulla graziosa dalle labbra carnose: la pena di un amore morto o il fremito di uno nascente? Desideri ardenti o torbide intenzioni? Non avremo mai una risposta, certo è che, al suo apparire, il quadro destò un notevole sconcerto ed assicurò a Corcos di sopravvivere all’oblio che fagocitò il resto della sua opera.

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Vittorio Corcos, Il cucciolo, 1899

Accanto al fortunato filone che lo rese celebre fatto di crinoline, scene zuccherose e giovinette sospese tra l’innocenza ed il peccato, Corcos diede prova della sua abilità dedicandosi anche a quadri di carattere sacro e religioso, oltre ad una produzione che comprendeva immagini gioiose della vita rustica, tratte dai modelli francesi di Millet e di Breton.

I soggetti affrontati da Corcos riflettono le suggestioni letterarie del simbolismo e del naturalismo d’oltralpe che, in Italia, trovava i suoi corrispondenti in Carducci, Pascoli e d’Annunzio, autori che Corcos frequentò personalmente attraverso il cenacolo del “Marzocco”.

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Vittorio Corcos, In giardino, 1892

Pittore delle bellezze femminee, capace di spaziare dalla malizia dei ritratti delle ricche maliarde alla simpatia dei ritratti di amicizia, dall’introspezione psicologica alla compostezza dei ritratti ufficiali, Vittorio Corcos finì con il rimanere incatenato all’immagine di un mondo fatuo e  patinato attraverso il quale era divenuto così celebre.

“Chi non conosce la pittura di Vittorio Corcos? Attenta, levigata, meticolosa, ottimistica: donne e uomini come desiderano d’essere, non come sono.”

(Ugo Ojetti, 1948)

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Vittorio Corcos, Guardando il mare

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Vittorio Corcos, Sul balcone

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Vittorio Corcos, Pomeriggio in terrazza


John Singer Sargent e Vittorio Corcos: tutta colpa di una spallina

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Per una spallina mollemente scivolata su una spalla, John Singer Sargent gettò scandalo nella Parigi benpensante di fine secolo.
Correva l’anno 1884 quando al Salon espose il ritratto incriminato: la modella era la bellissima Virginie Amélie Avegno, moglie del ricco banchiere parigino Pierre Gautreau, una delle esponenti più in vista dell’alta società.

“Un solo movimento e potrebbe rimanere nuda”, scriveva a proposito Le Figaro: una sola spallina in grado di turbare e stuzzicare le represse fantasie del pubblico.

John Singer Sargent, Ritratto di Madame X, 1884

John Singer Sargent, Ritratto di Madame X, 1884

Sargent, sconvolto da queste reazioni inattese, cercò di rimediare: rialzò la spallina e cambiò il titolo del dipinto in Ritratto di Madame X tentando così di elevare la figura di Virginie a generico simbolo dell’erotismo femminile.

Tentativi del tutto inutili che non placarono le chiacchiere attorno alla figura di Virginie, una donna che aveva puntato tutto sulla sua bellezza per emergere nel bel mondo tenendo, a volte, una condotta non proprio irreprensibile.

La tela aveva svelato pubblicamente la natura amorale di Virginie della quale, fino ad allora, si era solamente mormorato nei salotti: il pettegolezzo era sulla bocca di tutti e costrinse lo stesso Sargent a lasciare la bigotta Parigi per la più libertaria Londra.

Vittorio Corcos, Ritratto di Lina Cavalieri, 1903

Vittorio Corcos, Ritratto di Lina Cavalieri, 1903

Quasi vent’anni dopo, Vittorio Corcos, altro celebre interprete della Belle Époque, fece un ritratto molto simile a Lina Cavalieri senza destare, però, il medesimo scalpore.

Le due donne furono ugualmente immortalate in piedi, con il volto di profilo, fasciate in un abito scollato che metteva in risalto la loro avvenente silhouette, da cui penzolava, ammiccante, una spallina: rappresentazioni di due donne avvenenti e sensuali, che si proponevano con orgoglio allo sguardo ammirato degli spettatori.
Anche in questo caso la modella del ritratto non è anonima, ma, a differenza di Madame Gautreau donna sposata della buona società, Lina Cavalieri apparteneva al mondo dello spettacolo, una cantante che per mestiere calcava i palcoscenici, alla quale era dunque concesso di esibirsi senza troppi rumori.

Giovanni Boldini, Il cappellino nuovo (Ritratto di Lina Cavalieri)

Giovanni Boldini, Il cappellino nuovo (Ritratto di Lina Cavalieri)

Definita da Gabriele D’Annunzio “la massima testimonianza di Venere in Terra”, Lina Cavalieri, figlia di un’umile sarta e di un architetto caduto in disgrazie, scalò le vette della società non grazie ad un matrimonio prestigioso, come fece invece Virginie, ma esclusivamente sfruttando le sue doti canore unite ad alla sua stupefacente bellezza.

Più libera di affermare se stessa e la propria sessualità, la Cavalieri non poteva certo turbare per una spallina abbassata; lei che aveva ricevuto circa ottocentoquaranta proposte di matrimonio, si era sposata ben cinque volte e, tra diversi amori e amanti, preferì restare da sola per dedicarsi interamente alla sua arte senza dover dipendere da nessuno, specialmente da un uomo.

“Amo gli uomini come amo la vita, come amo la natura, ma penso che, nella maggioranza dei casi, questo compagno della nostra esistenza è assai inferiore a quel che crede o sente di valere.”

(Lina Cavalieri)

Giovanni Boldini, Ritratto di Lina Cavalieri

Giovanni Boldini, Ritratto di Lina Cavalieri

 


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