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Alberto Martini, chi era costui?

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Alberto Martini, "Autoritratto", 1911

Alberto Martini, “Autoritratto”, 1911

 

Nemo propheta in patria, espressione che pare appositamente vergata per definire la fama e l’opera di Alberto Martini, opitergino di nascita, ma europeo di adozione, artista tanto lungimerante nella sua produzione creativa, ma così poco compreso dai contemporanei e relegato, al fine, alla memoria di pochi raffinati cultori d’arte.

“…l’invenzione genuina risulta incomprensibile a chi non ha senso dell’eroico. pochi privilegiati la possono intuire, gli altri, impotenti, con maligne arti la combattono. In questo caso si tratta di oscurantismo…”

Con queste parole l’artista stesso lamenta, nella sua autobiografia “Vita d’artista” (1939-40), tutta la delusione e l’amarezza provate di fronte all’indifferenza della critica italiana a lui contemporanea, critica che, fatta eccezione per poche e illuminate personalità, si dimostrò del tutto incapace di cogliere l’originalità e la straordinaria potenza espressiva di Martini.

“So bene che la mia pittura originale può dar noia agli scarabocchini e ai criticonzoli miopi…”

Alberto Giacomo Spiridione Martini nasce ad Oderzo nel 1876 da Maria dei Conti Spineda de Cattaneis, antica famiglia nobile trevigiana da cui eredita un certo gusto dandy e una personalità scevra da qualsiasi asservimento o imposizione tradizionale, e da Giorgio Martini, pittore naturalista e professore di disegno, sotto la guida del quale inizia a disegnare e dipingere. L’ambiente familiare gli diede una prima educazione artistica, che non ebbe altri sedi di elezione, nè accademie: i parenti del padre, infatti, erano decoratori e mosaicisti veneziani di fama internazionale. La genesi di Martini è quella dell’autodidatta, caratteristica che lo accomuna alla formazione della maggior parte degli artisti europei a cavallo del secolo.

Egli dimostrò, fin dagli esordi, una spiccata predilezione per l’arte grafica. La sua vocazione di pittore, però, fu spesso mortificata e mal considerata, tant’è che egli si imporrà nella scena italiana ed internazionale soprattutto come maestro dell’arte del bianco e nero: illustrando numerose opere letterarie, disegnando ex libris, eseguendo pregiate affiches pubblicitarie. In queste opere raggiunse un alto grado di professionalità ed è possibile tracciare un percorso stilistico dalle giovani tendenze Art Nouveau, caratterizzate da segni ondosi e arabescati, fino al decorativismo più freddo, cerebrale, tipico del gusto Déco.

Tutta la produzione di Martini, si caratterizza per una notevole autonomia stilistica: pur coltivando un simbolismo dai gusti tenebrosi e perversi e precorrendo certe tendenze del surrealismo, egli si manterrà del tutto originale e radicato in un ambito culturale profondamente europeo.

Fondamentale fu, nella sua biografia artistica, l’incontro del 1898 con il critico napoletano Vittorio Pica con il quale si instaurò un rapporto quasi di alunnato. “Cio di cui mi ricordo molto bene – scrive Pica nel 1927 menzionando l’incontro con Martini avvenuto durante l’Esposizione Internazionale di Torino del 1902 – è che fu proprio in tale occasione che ebbi la buona ventura di fare la conoscenza di lui come artista e come persona. L’uomo, poco più che ventenne mi riuscì di prim’acchito simpatico nella riservatezza signorile, seppure un pò fredda, nell’eleganza sottile della persona, nel pallore del volto, in cui alla freschezza sensuale delle labbra rosse contrastava lo sguardo strano, fra acuto e astratto, fra disdegnoso e canzonatorio.”

Il sodalizio fra Pica e Martini stimolò l’intensità creativa di quest’ultimo iffinando, al contempo, le inclinazioni elitarie e prettamente spiritualistiche della sua arte. Pica, infatti, nutriva una visione puramente aristocratica dell’arte e, sebbene ebbe il merito di affermare la figura di Martini a livello europeo, limitò, d’altra parte, l’ampiezza e qualità di vedute dell’artista, incoraggiandolo verso un’arte dai toni decadenti di maniera, tra il blasé e il salottiero, a cui ne corrisposero, progressivamente, anche l’aspetto fisico e lo stile di vita.

Tra la copiosa produzione di Martini, la quale merita tutta la considerazione e attenzione possibili, voglio ricordare, in questa sede, le numerose illustrazioni realizzate ispirandosi ai racconti di Edgar Allan Poe. Egli consacrò 136 disegni ai tales dello scrittore americano e, sebbene fossero stati esposti alla Biennale di Venezia del 1907-1908, alla Galleria Goupil di Londra e in altre occasioni, rimasero per la maggior parte sconosciuti fino al 1984, anno in cui vennero pubblicati e catalogati; fatto che conferma la poca ammirazione che destava Martini fra i suoi contemporanei e l’isolamento come figura artistica nel panorama del tempo.

Le novelle di Poe furono un fertile argomento per le elaborazioni dell’artista, anche perchè si ponevano in sintonia con il tema del sogno, tema di pretta matrice simbolista e presenza ossessiva nelle dichiarazioni  e nelle iconografie di Martini.

“La mia vita è un sogno ad occhi aperti. Il sonno è un sogno ad occhi chiusi falsato dall’incubo della realtà. Sarebbe strano che qualcuno negasse che la realtà è un intempestivo, brutale, mortificante susseguirsi di contrattempi, malintesi, intoppi, cupidigie e miserie, di combinazioni assurde, immorali, criminali, tragiche, stonate sempre e noiose, perchè tutti gli uomini sono vittime di tali imprevedute avventure e ho sempre trovato tanto brutta, incongruente, grottesca e crudele la realtà, e quasi sempre di una comicità così ridicola e banale o di una perversità così ripugnante, che la mia riconciliazione è problematica.”

Martini conobbe Poe attraverso la traduzione francese che ne fece Baudelaire, ma, probabilmente, lesse anche delle traduzioni italiane. In questo nutrito corpus di disegni l’artista si dimostra totalmente lontano dai compiaciuti contorsionismi grafici di matrice liberty, esprimendo, con un segno più crudo e spoglio, l’essenza realistica e lucidamente descrittiva di Poe, del tutto estraneo a certi vezzi voluttuosi e sensuali tanto cari al Martini.

Le rappresentazioni sono fedeli al testo del poeta e incarnano perfettamente la vena più macabra e onirica di quest’ultimo. Lo stile, allo stesso modo, si fa duro e materiale, denso e dalla linea più concreta, vicino, per certi versi, alla grafica manieristica del Rinascimento tedesco, di cui Martini offre un’originale reinterpretazione. L’artista ebbe dei contatti documentati con l’ambiente culturale tedesco attraverso diversi soggiorni a Monaco e la collaborazione, come illustratore, per le riviste moderniste “Jugend” e “Decorative Kunst”; potè quindi conoscere direttamente la grafica tedesca a lui contemporanea ed approfondire lo studio degli artisti nordici del cinquecento.

L’8 novembre 1954 Alberto Martini muore a Milano, lasciando un testamento spirituale dove auspica l’istituzione di un museo in cui custodire le memorie e i documenti del surrealismo italiano.

Oggi, presso la “Pinacoteca Alberto Martini” di Oderzo, possiamo ammirare la preziosa eredità di questo artista, tanto negletto e misconosciuto, osteggiato dai contemporanei e relegato alla fruizione di pochi appassionati buongustai.

“…La grande finestra del mio studio è aperta nella notte. In quel nero rettangolo passano i miei fantasmi e con loro amo conversare. Mi incitano ad essere forte, indomito, eroico, mi sussurrano segreti e misteri che forse ti dirò. Moltissimi non crederanno e me ne duole per loro, perchè chi non ha immaginazione vegeta in pantofole: vita comoda, ma non vita d’artista. Una notte senza stelle, in quel rettangolo nero mi vidi come in uno specchio.

Mi vidi pallido, impassibile, la mia anima, pensai, che ora specchia il mio volto nell’infinito e un giorno specchiò chissà quali mie sembianze, perchè se l’anima è eterna non ha nè principio nè fine e noi non siamo ora che un suo differente episodio terreno. E questo pensiero rivelatore mi turbava. [...]

Mi voltai e vidi posata accanto alla mia mano una grande farfalla notturna che mi guardava battendo le ali. Anche tu, pensai, stai sognando e l’incantesimo dei tuoi immoti occhi di polvere mi vede un fantasma. Sì, notturna e bella visitatrice, sono un sognatore che crede nell’immortalità, o forse un fantasma del sogno eterno che chiamiamo vita.”

(Alberto Martini, “VIta d’artista”)

Alberto Martini, Illustrazione per "I Racconti del mistero e dell'orrore" di Edgar Allan Poe

Alberto Martini, Illustrazione per “I Racconti del mistero e dell’orrore” di Edgar Allan Poe

Alberto Martini, Illustrazione per "I Racconti del mistero e dell'orrore" di Edgar Allan Poe

Alberto Martini, Illustrazione per “I Racconti del mistero e dell’orrore” di Edgar Allan Poe

 

Alberto Martini,  Illustrazione per la Divina Commedia, Inferno XXXIII, Il Conte Ugolino e l'Arcivescovo Ruggeri

Alberto Martini, Illustrazione per la Divina Commedia, Inferno XXXIII, Il Conte Ugolino e l’Arcivescovo Ruggeri

 



I gioielli: il gusto Art Nouveau

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René Lalique, pendente, testa di ragazza incorniciata di papaveri

 

Negli ultimi anni del XIX e nei primi anni del XX secolo si assiste, in tutta Europa, ad una rifioritura delle arti applicate.

Tale fenomeno è da collegare, in primo luogo, al movimento inglese delle Arts and Crafts il quale, denunciando la mediocrità della produzione industriale, si levava a difesa dell’artigianato come salvaguardia della qualità estetica degli oggetti d’uso. L’obiettivo utopistico sostenuto dagli artisti inglesi era quello di rinnovare la società attraverso l’artigianato, convinti che l’uomo, circondandosi di Bellezza, avrebbe raggiunto il più alto grado morale e che di tale innalzamento avrebbero beneficiato le classi meno abbienti.

Questo slancio sociale che aveva caratterizzato, per gran parte, le ideologie dei teorici inglesi, si dimostrò, per lo più, illusorio: l’oggetto d’artigianato sostenuto come salvaguardia della qualità e varietà creativa, andava a scontrarsi con una nuova realtà economica, rivelandosi uno specialismo prezioso e quindi costoso.

Un altro stimolo determinante alla rinascita delle arti applicate, fu il clima simbolista che permeò la cultura europea di fine Ottocento. Esso coinvolse tutte le arti, abolendo così il confine tra arti maggiori e arti minori, nella volontà di fare dell’arte un’esperienza totale, tesa ad investire tutta la vita e a trasformarla secondo un’ideale di estetica bellezza.

Fu soprattutto con l’Art Nouveau, breve fenomeno artistico che coinvolse tutto il mondo occidentale tra 1895 e 1914, che la produzione di oggetti d’arte applicata ebbe il suo momento di massimo splendore nella raffinetezza e nella finezza di esecuzione.

L’Art Nouveau fu più che un semplice fatto stilistico: in realtà essa rappresentava una nuova concezione delle arti minori che teneva conto, in modo rigoroso, dei rapporti intercorrenti fra le strutture tecniche di produzione e il prodotto; ciò al fine di allargare la fruizione dei fatti artistici a strati sempre più larghi, e rifiutando al contempo ogni compromesso verso una riduzione di qualità nel processo di serie.

Questo stile si diffuse rapidamente in tutta Europa, rivoluzionando completamente l’architettura e le arti decorative.

La gioielleria fu una delle attività dove l’Art Nouveau trovò piena realizzazione, prestandosi, più di altre, alle sperimentazioni ardite e raffinate degli artisti-artigiani.

La Francia diede i migliori gioiellieri: nei vent’anni in cui perdurò la moda Art Nouveau, gli artisti parigini produssero alcuni fra i pezzi più eleganti ed originali di ogni tempo.

René Lalique, ornamento da corsetto, “Scarabées”, 1889


René Lalique fu, senza dubbio, il più grande e noto creatore di gioielli. Egli legò il suo nome anche alla figura della grande attrice contemporanea Sarah Bernhardt, per la quale realizzò numerosi monili.

Il merito di lalique fu quello di porre fine all’atteggiamento utilitaristico che era stato tipico dei gioiellieri nei secoli addietro: egli riteneva che il valore intrinseco dei materiali usati in gioielleria fosse del tutto irrilevenate, e li impiegava, perciò, senza badare al loro valore commerciale; se riteneva che il vetro fosse il materiale più adatto e realizzare un certo modello, lo usava senza badare al suo scarso valore.

L’opera di Lalique trae ispirazione, in particolar modo, dalla natura e dall’arte giapponese, molto in voga in quel periodo. I temi naturalistici sono ricorrenti nei suoi gioielli: animali, pesci, piante e, soprattutto, insetti. A volte essi erano riprodotti con grande verosimiglianza, a volte l’immagine veniva elaborata e deformata o era puramente il frutto della fantasia del creatore.

 

Reneé Lalique, spilla a libellula, (1897-1898)

 

Nel 1896 Lalique espose, al Salon di Parigi, i suoi primi nudi scolpiti in avorio, costituenti il tema centrale di un gioiello. Il nudo divenne poi un tema ricorrente delle sue opere e fu molto imitato.

L’esemplare più noto ed affascinante, compreso nella collezione commissionata da Calouste Gulbenkian, è una spilla per corpetto che fu prestata a Sarah Bernhardt. A prima vista essa sembra una libellula, ma ad un esame più attento risulta essere un geco, con lungo corpo sottile ed enermi artigli. Dalle mandibole aperte esce il dorso di una donna che, in luogo delle braccia, ha grandi ali in plique à jour.

Oltre alla raffinatezza nella scelta dei materiali (oro, smalto e gemme) e alla pregiata esecuzione, è da notare che le ali e il busto  sono mobili: geniale espediente che permette alla spilla di spostarsi assieme al corpo della persona che la indossa.

In questo caso il naturalismo di Lalique non è altro che il risultato di un’interpretazione fantastica ed inquietante: l’animale si trasforma in donna nuda, un’immagine erotica che rimanda alla figura della femme fatal per l’aggressività ed il senso di pericolo latente, celato, in questo caso, dagli artigli dorati.

Alpons Mucha, pendente sicomoro, 1905

 

Un altro importante gioielliere parigino fu Georges Fouquet, la cui miglior produzione coincise con gli anni in cui lavorò con il disegnatore di manifesti Alpons Mucha.

Alpons Mucha era già affermato nella creazione di opere d’arte applicata in genere, quando Fouquet gli propose di collaborare con lui per rivaleggiare con la produzione di Lalique: il risultato fu una concezione nuova ed originale della gioielleria.

Vennero così alla luce le seducenti e sfarzose parures de tete et de corsage, preziose acconciature sistemate sul capo e nel busto con profusione di pietre a cabochon, smalti, pendenti, gruppi tintinnanti di ciondoli appesi a catenelle, volti femminili scolpiti nell’avorio, piastre e catene di fogge diverse.

Alfons Mucha, braccialetto e anello con serpenti, 1899

 

Uno dei pezzi più conosciuti è il celebre braccialetto e anello con serpenti, indossato da Sarah Bernhardt nel ruolo di Cleopatra, apparso, l’anno precedente, nel manifesto realizzato sempre da Mucha per la Médée. Un grande serpente d’oro a smalti si arrotola tre volte intorno al polso, e la testa intagliata nell’opale con gli occhi di rubini si posa sul dorso della mano: dalla bocca esce una catena che lo unisce ad un anello al dito pure di opale, oro e smalti. Un esemplare, come molti altri di Mucha, ispirato a modelli indiani dell’antichità, sognati con la sensibilità del raffinato contemplatore esteta fin de siècle.

Gli effetti della moda Art Nouveau si avvertirono anche in altri paesi europei, ma nessuno di essi produsse gioielleria di particolare valore, ad eccezione del Belgio.

Nell’ultimo decennio del XIX secolo, contemporanee allo sviluppo del gioiello Art Nouveau, persistevano forme decisamente più tradizionali legate, ad esempio, all’uso dei diamanti: Cartier e Boucheron a Parigi, Asprey a Londra, Black Starr e Frost a New York, Bulgari in Italia producevano opere di grande valore tecnico-artigianale, ma di originalità piuttosto limitata.

Verso il 1914, l’Art Nouveau si estinse, vittima di un certo accademismo manierato, e con essa sembrò dissolversi anche la speranza di una rinascita delle arti apllicate.

Philippe Wolfers, l’orchidea, 1900
Gioiello da testa realizzato in oro, smalto, plique à jour, rubini e diamanti. E’ alto 7,6 centimetri.

 

 


La rinascita delle arti applicate in Italia

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Galileo Chini, particolare de il ciclo La Primavera, 1914

Sollecitata dagli esempi stranieri, in particolar modo da quello inglese, anche l’Italia, verso la fine dell’Ottocento, assiste ad un vero e proprio risveglio delle arti applicate. Tale risveglio, però, non fu accolto, come accadde invece nelle altre nazioni, in un vasto e organico movimento teorico e pratico, ma fu sostanzialmente dovuto a tentativi di artisti quasi del tutto isolati e per nulla incoraggiati dal pubblico favore.

L’Italia postunitaria, infatti, per tradizioni culturali ed artistiche, fu caratterizzata da un’evidente frammentazione regionale, che ostacolerà uno sviluppo pieno e completo delle iniziative di una ristretta cerchia di artigiani, di artisti e di ricchi borghesi, dotati di una notevole sensibilità culturale.

Galileo Chini, particolare dell’affresco eseguito nel Palazzo Congressi a Salsomaggiore, 1925

I motivi di questo rinnovato interesse per le arti apllicate sono molteplici. In primo luogo, le arti applicate rappresentano un campo vario ed aperto ad innovazioni stilistiche, in quanto, non essendo sottoposte al giogo dell’Accademia – come invece lo sono le arti maggiori – si caratterizzano per una notevole libertà di espressione e di sperimentazione. Inoltre, anche in Italia, le arti applicate si caricano di significati e di valenze sociali: il dare una veste artistica ad oggetti d’uso comune, implica la volontà di stringere dei legami più profondi fra arte e società, sottrraendo così l’arte alla fruizione esclusiva di una ristretta élite intellettuale.

Pietro Fenoglio, Villa Scott – Torino, 1902

Eugenio Quarti, sedie in noce d’India, 1900

La rivista modernista Emporium, già nel 1895, anno della sua fondazione, sollecita in Italia, attraverso la promozione di concorsi artistici, la produzione di “motivi applicabili all’ornamentazione, all’industria, agli oggetti di uso domestico e comune [...] senza bisogno che tutto ciò abbia ad essere francese, inglese o tedesco.” Parole queste che intendono promuovere una produzione artistica tutta italiana, in grado di competere con i prodotti stranieri, riconosciuti come modelli e punti di riferimento.

Il 1898 è un anno cruciale in tal senso per l’Italia, a Torino, infatti, durante l’Esposizione generale, gli ardimentosi promotori di un rinnovamento stilistico italiano, trovarono modo di confrontare le loro idee con il pubblico e con la critica. Nel 1898, inoltre, venne fondata l’Aemilia Ars, società bolognese costituita da un gruppo di nobili e di artisti, che si proponeva il rinnovamento delle arti applicate.

Leonardo Bistolfi, manifesto per l’Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna di Torino, 1902

Il rifiorire delle arti apllicate, in Italia, è intimamente legato al periodo rinascimentale, dal quale vengono tratti modelli stilistici e formali, adattati al nuovo gusto moderno e nel rispetto delle esigenze funzionali imposte dal mondo contemporaneo. In Inghilterra e in altre nazioni europee, invece, il modello imperante è l’epoca medioevale, un’ epoca per lo più idealizzata ed investita di istante etiche e socialmente rivoluzionarie.

In Italia la necessità di modernità ed innovazione stilistica, si scontrò con l’esigenza di difendere l’identità nazionale, appena costituita, e la cultura italiana individuò nel neorinascimento lo stile nazionale, soddisfacendo nel contempo il nazionalismo borghese e la tradizione accademica imperante. Anche i critici più aperti e preparati, dunque, si trovarono invischiati con il bisogno di essere moderni restando, però, italiani, in modo da poter conciliare i termini di modernità e tradizione.

Galileo Chini, Vaso, 1902-1904, maiolica policroma

Galileo Chini, Vaso con pesci, 1900, maiolica policroma

La produzione di oggetti d’uso comune si proponeva di dare un carattere artistico alle cose che circondano l’uomo nel suo vivere quotidiano, opponendosi, così, ad una produzione in serie e massificata. Al di là dei nobili intenti, però, ci si limitò ad una ristretta produzione di lusso e, nei casi in cui ci fu una commercializzazione più ampia di tali prodotti, questi furono per lo più una copia involgarita dei modelli originali.

“[...] io segnalo con piacere questa rinascita, nella speranza che inizi un’epoca di rinnovamento generale, educando il gusto a quella bellezza di forme che gli antichi conoscevano e profondevano prodigalmente nelle case, come un bisogno, una consuetudine, e che manca a noi, in questo secolo di lumi.” (Mara Antelling, Emporium, ottobre 1898)

Il reparto intaglio del legno della fabbrica di mobili Ducrot, Palermo 1927

Leopoldo Metlicovitz, manifesto per Cabiria, 1912


Henri de Toulouse-Lautrec: un nobile interprete di Montmartre

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Henri de Toulouse-Lautrec, Ballo al Moulin Rouge, 1889-1890

“Poichè era piccolo, brutto, paradossale, singolare in tutto, i parigini, sempre pronti a giudicare gli uomini solo dall’apparenza, si sono fatti di Toulouse-Lautrec un’idea sommaria, uno schema.

Era prigioniero d’una formula. Le parole gnomo, nano, bohème di Montmartre, sono andate a finire da sole sotto la penna dei necrologisti, e hanno espresso solo un lato di questa natura misconosciuta, rimasta, nonostante le molte disgrazie, nobile di cuore come lo era per nascita.”

(L. N. Baragnon, Necrologio, in “La Dépeche”, 9 settembre 1901)

Montmartre con i suoi cabaret, i suoi caffè concerto, i suoi singolari paradisi a pagamento, il circo e i suoi originali personaggi, fu l’ambiente entro il quale si svolse l’esistenza e l’opera di Tolouse-Lautrec. Nella Parigi di fine Ottocento, Montmartre è un quartiere vario ed eterogeneo dove si mescolavano parecchie classi di attività e trovavano modo di esprimersi culture e ceti sociali molto diversi fra di loro.

Il boulevard de Clichy suddivideva la parte più a sud di Montmartre in due zone distinte fra di loro e fortemente contrastanti: a sud vi era un’area più borghese che ospitava gli studi degli artisti di riconosciuta notorietà, a nord lavoravano gli artisti non ancora affermati, sospesi in un precario equilibrio tra miseria ed alienazione. E fu proprio in questa zona di Montmartre, un piccolo e frenetico quartiere notturno, che Lautrec scelse i soggetti delle sue opere e la sua arte prese vita e sostanza.

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Henri de Toulouse-Lautrec, Al circo Fernando: cavallerizza, 1887-1888

Di nobile famiglia, apparteneva ad uno dei più antichi casati francesi, scelse di vivere tra i poveri e i diseredati, forse per un sentimento di solidarietà nei confronti di un mondo segnato da un analogo destino beffardo.

Nella sua vita e nella sua arte, infatti, è evidente l’influenza che ebbe la sua drammatica vicenda personale: rimasto vittima, negli anni dell’adolescenza, di due fratture che si rivelarono fatali per un normale sviluppo fisico, Lautrec si vide condannato ad una deformità fisica che visse in modo drammatico e doloroso.

I piaceri e i lussi che gli avevano riservato i nobili natali, furono trascurati da Lautrec in nome di una vita condotta tra i vicoletti di Montmartre, dove il vizio si mescolava alla malattia, e dove riuscì a distinguersi, per censo e cultura, superando, in parte, le proprie frustrazioni.

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Henri de Toulouse-Lautrec, Al Moulin Rouge: la Goulue e Valentin-le-Désossé, 1895

Lautrec in quei luoghi, e proprio grazie al suo status, impersonò la figura del dandy di fine secolo: fu da ricco dandy che scelse Montmartre come sua residenza, fu lo spirito del dandy ad attrarlo verso l’indigenza più cupa e a farlo godere dell’ebrezza delle folle e delle feste notturne, tra le quali si aggirava vestendo i panni eleganti del raffinato aristocratico.

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Henri de Toulouse-Lautrec, Ritratto di Oscar Wilde, 1895

L’arte di Lautrec fu fortemente innovativa, capace di improvvise folgorazioni emotive, tradotte con un linguaggio pittorico del tutto originale.

Il suo nome è legato, in particolar modo, alla produzione di affiche, un’espressione moderna e ancora poco praticata delle arti applicate. In tal senso egli interpretò perfettamente il clima di rinnovamento delle arti minori che si andava affermando, un po’ in tutta Europa, sul finire del secolo.

Aperto alle suggestioni culturali più diverse, quali l’arte giapponese, Lautrec fu uomo del suo tempo nel suo tempo, che seppe interpretare superando il naturalismo impressionista e pervenendo, così, ad una nuova e più profonda percezione della realtà.

Consapevole dei contrasti che animavano il mondo della Belle Époque parigina, Lautrec riteneva che la verità risiedesse al di là della mera apparenza delle cose, e che queste fossero il simbolo di una realtà più autentica e più vera.

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Henri de Toulouse-Lautrec, Divan Japonais, 1893

L’arte di Lautrec, con le sue linee curve e nervose, partecipa dello spirito di cui è animata la contemporanea Art Nouveau, con la sola differenza che l’occhio con cui l’artista guarda la realtà non è festoso, ma è trafitto da una lacerazione che porta alla luce la truce miseria della nuova dimensione urbana.

La sua innata abilità caricaturale, che lo contraddistinse fin dall’infanzia, fu l’arma che, unita ad una visione distaccata ed ironica della realtà, portò Lautrec a superare il tradizionale linguaggio accademico e verista per tradurre, in modo più consono, il composito panorama di Montmartre, segno e simbolo di una peculiare visione esistenziale.

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Henri de Toulouse-Lautrec, In una saletta privata al Rat Mort, 1899

Le sue frequentazioni abituali lo portarono ad elaborare dei personaggi tipizzati, semplificando le caratteristiche di ciascuno e creando, così, una sorta di personale bestiario umano.

Il tipo di Lautrec è quello che egli vedeva aggirarsi per le vie e per i locali notturni e che incarnava perfettamente la psicologia e l’espressione del mondo di cui faceva parte. I suoi personaggi sono simboli di un’umanità ferita ed oltraggiata alla quale egli appartiene e di cui condivide i sentimenti di dolore, di indigenza e di solitudine proiettandoli, però, nella dimensione più estesa di una generale condizione umana. Con questo sguardo, più lontano ed oggettivo, l’artista riesce così a superare la dimensione personale, guardando alla crudezza della realtà, ma evitando di rimanervi prigioniero.

“Mi piacerebbe parlarvi un po’ di ciò che faccio, ma è così particolare, così fuori legge.” (Henri de Toulose-Lautrec)

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Henri de Toulouse-Lautrec, Reine de joie, 1892


L’Art Déco: lo stile glamour di una società ansiosa di modernità

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Tamara de Lempicka, Autoritratto, 1929

Negli anni tra le due guerre si sviluppò uno stile eclettico, seppur unitario, che comunemente soliamo etichettare con il nome di Art Déco, nome che fu dato a posteriori a questo nuovo gusto estetico. Questa tendenza, che solitamente vediamo riferita alle arti decorative, coinvolse più in generale tutte le arti, in quanto, come sentimento dominante di un’epoca, si estese a tutte le sue manifestazioni artistiche.

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Sonia Delaunay (moglie del pittore Robert), con indosso un suo abito simultaneo, posa accanto ad una Citroen B12, la prima automobile da lei decorata nel 1925

Il termine Dèco deriva da un’abbreviazione riferita all’Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Moderns, tenutasi a Parigi nel 1925; l’aver scelto una mostra di arti decorative per indicare la tendenza di un’epoca ha fuorviato, per molto tempo, la comprensione del fenomeno, riducendolo ad una mera manifestazione stilistica inerente alle arti minori.

Come ambigua e casuale, dunque, fu la nascita del termine Déco, così ambigua ed incerta fu la limitazione che i critici diedero al fenomeno: limitato agli anno Venti o esteso agli anni Trenta; o ancora riservato alle arti decorative o esteso alle arti maggiori comprese l’architettura e la scultura.

Con il termine Déco, in conclusione, possiamo ricondurre tutte le manifestazioni estetiche, comprese tra le due guerre, che rispecchiarono la ricerca di un gusto moderno, ossia capace di venire incontro alle nuove esigenze culturali e sociali.

In tal senso cade ogni barriera, perdendo di significato e di valore, la tradizionale distinzione gerarchica fra arti maggiori ed arti a minori: la creatività, ad ogni livello espressivo, trovò negli ottimistici anni Venti il terreno adatto per svilupparsi al di fuori della tradizione accademica, alla ricerca di uno spirito moderno ed innovativo.

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Robert Bonfils, Manifesto per l’Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Moderns, Parigi 1925

L’Art Déco si pone in stretta relazione con l’altro movimento stilistico che l’aveva preceduto, ossia l’Art Nouveau, sia per la considerazione che viene prestata a tutte le manifestazioni artistiche senza alcuna distinzione gerarchica, sia per la propria vocazione a porsi come stile unitario e totalizzante.

Pur operando nel Déco molte idee di fondo che animarono l’Art Nouveau, le differenze tra i due stili furono evidenti nelle produzioni artistiche: mentre l’Art Nouveau era ancora legata ad una linea serpentina di matrice simbolista e teosofica, l’Art Dèco, espressione del progresso tecnologico e del mito della macchina, sviluppò linee più fortemente meccaniche e costruttive.

Il vecchio stile floreale fluido ed astratto venne, così, superato a favore di geometrie che evocavano ingranaggi meccanici, di forme prismatiche che alludevano alla nuova realtà dei grattacieli costruiti nelle metropoli.

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William Van Alen – Walter Chrysler, Chrysler Building, particolare, 1930

Il termine moderno era il termine guida, una sorta di bandiera sventolata con orgoglio dai protagonisti del Déco.

Moderno era tutto ciò che inneggiava al progresso della tecnologia, tutto ciò che in pochi anni aveva cambiato le abitudini e gli stili di vita degli uomini: le automobili, le luci artificiali che illuminavano la vita notturna, gli aerei, i grattacieli e, sopra tutto, il lusso, del quale, dopo i disastri della prima guerra mondiale, gli uomini avevano preso il gusto di attorniarsi, ignari e inconsapevoli del disastro che di lì a poco si sarebbe abbattuto nuovamente sull’Europa e sull’America.

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Demetre Chiparus, Les Girls, 1930

L’immagine chimerica di un futuro lontano vagheggiata dai Futuristi, negli anni Venti del Novecento era divenuta realtà quotidiana e vissuta: la modernità del Déco non era più utopistica ma pratica condivisa e costante.

Ogni dettaglio del nuovo e moderno mondo doveva, così, essere ricostruito secondo i nuovi canoni estetici che prevedevano una semplificazione astratta delle linee e l’uso di materiali legati alla nuova industria, ossia la plastica, la cellulosa, l’alluminio, la bachelite, vetri satinati, cementi colorati, tubolari cromati e luci utilizzate come elementi decorativi ed architettonici.

Per quanto riguarda i soggetti, oltre ai simboli della modernità imperante, vi fu un sussegguirsi di temi allusivi all’eleganza e al glamour di una società che si sentiva forte e potente: donne fatali, animali dalla grazia felina, composizioni astratte ammiccanti alla pittura più sofisticatamente intellettuale del tempo.

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Edgar Brandt, paravento Oasis, 1924

Il nuovo stile moderno ebbe modo di diffondersi capillarmente in ogni paese, divenendo così un fenomeno globale di costume, proprio grazie ai quei progressi tecnologici ai quali il Déco inneggiava: il proliferare di riviste d’arte, l’intensificarsi dei viaggi, la trasmissione più immediata delle informazioni, furono tutti motivi che concorsero al radicalizzarsi di uno stile totale, divenendo così la moda di un’epoca.

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Georges Lepape, copertina per Vogue, 1927

Negli anni Dieci del Novecento, attraverso le Avanguardie e le Secessioni, si erano già gettate le basi per lo sviluppo di un gusto collettivo e sofisticato come il Déco: il ritorno all’ordine e ad una costruzione strutturale-geometrica, l’ideologia della modernità proiettata a tutti i livelli della vita quotidiana, la poesia della macchina e del meccanico, l’esotismo che si evolve e assume nuove forme ed accezioni.

Il Déco nella sua ricerca di linguaggi originali e nella volontà di rinnovare il tradizionale e obsoleto repertorio stilistico, attinse notevolmente al repertorio dell’arte extraeuropea, proiettandosi su aree fino ad allora ignorate: l’arte dell’antico Egitto, l’arte precolombiana, l’arte cinese. L’esotismo del Déco era privo però di enfasi mistica o romantica: si guardava al diverso non con un senso di straniamento o di evasione, ma proprio alla ricerca di originali linguaggi costruttivi e formali.

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Tamara de Lempicka, Andromeda (La schiava), 1929

Le arti tra le due guerre furono, dunque, caratterizzate da un’ansia di elegante modernità e trovarono, proprio nel Déco, un campo di applicazione privilegiato: un perfetto e riuscito connubio tra società e progresso attraverso manufatti velati di modernità non solo nelle forme, ma nella loro stessa sostanza.

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La nuova torre di Babele, fotogramma di Metropolis di Friz Lang, 1927


Egon Schiele: Tormento ed Estasi

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Egon Schiele, ritratto del 1915

Egon Schiele, ritratto del 1915

 

“Nessuna opera d’arte erotica è una porcheria, quand’è artisticamente rilevante, diventa una porcheria solo tramite l’osservatore, se costui è un porco.”

(Egon Schiele)

Il 31 ottobre 1918, a soli ventott’anni, Egon Schiele morì a Vienna sfinito dalla febbre spagnola. Un’esistenza breve ma vissuta con intensità, in un’epoca dove l’individuo, attorniato da una realtà ostile, si rifugiava nella propria interiorità proiettandovi tutto il proprio malessere ed il proprio tormento.

Tra il 1890 – anno di nascita dell’artista – ed il 1918, Vienna fu una fucina privilegiata per lo sviluppo di idee e tematiche che troveranno in seguito la loro piena maturazione; un centro intellettuale e culturale denso di fermenti, protagonista del tramonto di un’età felice e consapevole della rovina incombente: l’utopia estetica della Secessione si andava mutando nel grido solitario dell’Espressionismo.

“Mai vi fu epoca più sconvolta dalla disperazione, dall’orrore della morte. mai più sepolcrale silenzio ha regnato sul mondo. Mai l’uomo è stato più piccolo. Mai è stato più inquieto. Mai la gioia è stata più assente e la libertà più morta. Ed ecco urlare la disperazione: l’uomo chiede urlando la sua anima, un solo grido d’angoscia sale dal nostro tempo. Anche l’arte urla nelle tenebre, chiama al soccorso, invoca lo spirito: è l’espressionismo.”

(Hermann Bahr)

Egon Schiele, Donna distesa con calze nere, 1917

Egon Schiele, Donna distesa con calze nere, 1917

 

Egon Schiele, con la sua opera, si fece interprete della decadenza e della nevrosi di fine secolo, esprimendo quella che era la sua stessa angoscia e fragilità di fronte ad una coscienza troppo acuta della realtà.

Prematuramente segnato dalla morte del padre, invischiato in un rapporto ambiguo con la sorella Gertrud, che sarà la sua prima modella, Schiele sviluppò una particolare coscienza nevrotica ed ossessiva che tradusse nel segno allucinato e nelle tematiche dei suoi quadri: sesso e morte, colpa ed espiazione, caducità e declino. Un giovane sradicato ed isolato che riversò nella sua arte delle ferite personali non ancora ricucite.

Egon Schiele, Donne recline, 1915

Egon Schiele, Donne recline, 1915

 

Con Schiele l’elegante e raffinata linea klimtiana si fece stridente e acuta: alla ricerca terapeutica della serenità delle forme si sostituì un grido di sconforto di fronte alla malattia della modernità.

Il sogno estatico della Secessione venne soppiantato da un incubo costantemente presente nelle tele dell’artista: il segno lacera e decompone una realtà da cui non si può fuggire ma che, nello stesso tempo, non si è più in grado di analizzare.

Egon Schiele, Autoritratto, 1911

Egon Schiele, Autoritratto, 1911

 

Schiele debuttò ufficialmente nella scena artistica viennese nel 1909, con un’esposizione nella Kunstschau, che aveva ospitato l’anno prima una retrospettiva dell’amico e maestro Gustav Klimt.

Egli si presentò subito come un imitatore di Klimt anche se con delle diversità già maturate e presenti: all’ossessione decorativa di Klimt Schiele sostituì il vuoto, un vuoto atto a potenziare ed isolare l’immagine restituendone tutta la sua drammatica essenzialità.

Le persone, i paesaggi, la natura di Schiele sono colti nella loro caducità e nel loro struggimento emotivo: nessun orpello od eleganza formale è in grado di abbellire una condizione di per se drammaticamente precaria, sospesa sull’orlo dell’abisso. “Tutto ciò che sta vivendo è già morto” – sosteneva Schiele a questo proposito, vedendo nella natura il senso stesso della precarietà.

Con Schiele, pur nato dalle costole di Klimt, avvenne quell’evoluzione verso l’espressionismo, anche se, nell’artista, la lacerazione della forma non si compì completamente rimanendo sempre al limite: la linea si acuisce nello sforzo di rompere quella forma a cui è saldamente legata.

Egon Schiele, Gli amanti, 1917

Egon Schiele, Gli amanti, 1917

 

La serie di ritratti ed autoritratti che Schiele ci lascia sono la testimonianza delle ansie di un’epoca: egli penetrò nel dolore e nella sofferenza in prima persona spogliando, nel contempo, la realtà della sua aurea di sanità e compiutezza: personaggi frammentari, amputati, preda della loro nevrosi e costretti, come delle marionette, nella loro solitudine esistenziale.

La deformazione, l’artificio delle pose e delle inquadrature, l’enfasi del nudo e della magrezza sono tutte delle provocazioni: una denuncia del male psichico e del male sociale.

In tal senso Schiele si fece e si autoproclamò come nuovo demiurgo, colui che vedeva dove gli altri non vedevano, denunciando tutto l’orrore e la follia emergenti dentro e fuori di sé.

Egon Schiele, Nudo femminile, 1910

Egon Schiele, Nudo femminile, 1910

 

Anche il tema del sesso in Schiele, come in Munch, venne trattato nella sua variante più dannata e distruttiva: un morbo e una punizione a cui non ci si può sottrarre. “Credo che l’uomo debba soffrire la tortura sessuale finché è capace di sentimenti sessuali.”

Le caotiche pulsioni del sesso in Schiele sono quelle dell’adolescente turbato dal proprio sviluppo, disorientato di fronte alla ricerca ed all’affermazione della propria identità sessuale: un misto d’istinto e di repressione che finiscono per deformare le naturali istanze della vita.

Egon Schiele, Nudo femminile, 1914

Egon Schiele, Nudo femminile, 1914

 

Vienna all’epoca era ossessionata dal sesso ma, nel contempo, viveva in un clima di perbenismo castrante. Al desiderio non rimanevano che tre possibilità malsane di espressione: dissimulazione, frustrazione e trasgressione.

Nel 1909 con Assasinio speranza delle donne Kokoschka cancellò qualsiasi illusione di un sogno d’amore: il sesso non è che una guerra in cui ciascuno cerca nell’altro il proprio assassino. E così Schiele mise in scena la malattia di un’epoca, la paura delle proprie pulsioni, dei propri istinti che vennero raggelati e deformati in corpi senza languore, devastati dall’ansia e corrosi dal marchio del peccato e della trasgressione.

Egon Schiele, Amicizia, 1913

Egon Schiele, Amicizia, 1913

 

Nel 1918, al momento della grande mostra antologica della Secessione, Schiele approdò alla sua piena maturità artistica, il culmine e la fine della sua breve e fulminante carriera.

“Il mio cammino conduce nell’abisso.”

Egon Schiele, Wally in camicia rossa, 1913

Egon Schiele, Wally in camicia rossa, 1913

 


Gustav Klimt e i pannelli per l’Università di Vienna: una querelle des Anciens et des Modernes

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“Di me non esiste alcun autoritratto. Io non mi interesso della mia persona come oggetto di pittura, mi interessano di più le altre persone, soprattutto se di sesso femminile, ma ancora di più mi interessano altre forme. Sono convinto che la mia persona non sia particolarmente interessante. Sono un pittore che dipinge proprio tutti i giorni, dalla mattina fino alla sera. Figure e paesaggi, un po’ meno i ritratti.”

(Gustav Klimt)

Gustav Klimt, Medicina, particolare di Igea, 1900 (opera distrutta nel 1945)

Gustav Klimt, Medicina, particolare di Igea, 1900 (opera distrutta nel 1945)

 

Nel clima di polemica e di ribellione che caratterizzò il primo periodo della Secessione, ebbe luogo lo scandalo dei dipinti per l’Università di Vienna.

Nel 1894 il Ministero per l’istruzione incaricò Matsch e Klimt di decorare il soffitto dell’aula magna dell’Università. Nella primavera del 1900, durante la settima mostra della Secessione, venne esposto la Filosofia, il primo dei tre pannelli progettati da Klimt.

In quest’opera Klimt propose una visione da inferno dantesco dell’umanità: corpi nudi avvitati a grappolo che galleggiano dolenti nel vuoto cosmico. Dalle tenebre emerge solo una Sfinge maestosa : “il globo terrestre, l’enigma del mondo” – come recitava il catalogo dell’esposizione. Una figura dallo sguardo cieco e dai colori sfocati che pare indifferente al dramma umano che si svolge dinnanzi a lei. Nel bordo inferiore della tela appare una donna misteriosa e ammantata di nero: la Sapienza dallo sguardo di veggente che sembra penetrare oltre la visione dello spettatore.

Gustav Klimt, Filosofia, 1900 (opera distrutta nel 1945)

Gustav Klimt, Filosofia, 1900 (opera distrutta nel 1945)

 

Tale rappresentazione suscitò notevoli critiche, non era certo l’immagine del trionfo e dell’apoteosi dei lumi che avrebbero voluto i professori viennesi.

Klimt, privando l’uomo della rasserenante facoltà di comprensione della realtà, mise in scena un’umanità alla deriva: corpi indifesi in uno spazio inaccessibile alla razionalità.

Il 24 marzo del 1900, undici membri dell’Università firmarono una petizione contro l’opera, dicendosi contrari alla collocazione del dipinto nell’aula magna. Il dibattito fu subito connotato da toni accesi ed iracondi: lo scontro verteva soprattutto su valori estetici ed aveva, inoltre, forti risvolti politici.

“Non è né alla nudità nelle arti, né alla libertà artistica che ci opponiamo, ma alla sozzura nell’arte”, con queste dure parole Friedrich Jodl si mise alla testa delle proteste contro la Filosofia. I difensori di Klimt, cappeggiati da Wickoff, insinuarono che le accuse di sozzura e bruttezza fossero solamente il risultato di una non conoscenza e di un disinteresse per la nuova arte, ribadendo, così, la vittoria dello psicologismo sull’estetismo assoluto dello storicismo.

La querelle passò molto presto dalle sedi istituzionali alla stampa. Di fronte a tale ridda di polemiche, il ministro von Hartel decise di sospendere il giudizio in attesa di vedere collocate le tele nella loro sede definitiva.

Gustav Klimt, Medicina, 1900 (opera distrutta nel 1945)

Gustav Klimt, Medicina, 1900 (opera distrutta nel 1945)

 

Klimt, nel frattempo, per nulla intimorito dal clima rovente che aveva contribuito a creare, nel marzo del 1901, durante la decima mostra della Secessione, presentò il secondo pannello per l’Università, la Medicina.

Anche qui invece di celebrare il trionfo della scienza ed il suo potere terapeutico, Klimt raffigurò l’eterno ed insensato trapassare dell’esistenza dalla vita alla morte: giovani, vecchi, bambini, donne e uomini nudi fluttuano solitari nello spazio siderale, mentre la figura della morte li avvolge con il suo velo nero. In primo piano Igea, un’altra sacerdotessa, funge da tramite tra questo teatro del dramma umano e lo spettatore.

Le polemiche, anche in questo caso, si fecero subito sentire sia a livello istituzionale che da parte del pubblico, quest’ultimo offeso dalla moltitudine di nudi presenti nell’opera.

Klimt, di personalità schiva ed indifferente alle controversie, affermò in un’intervista sul Wiener Morgen-Zeitung: “una volta terminato un quadro non ho voglia di perdere dei mesi interi a giustificarlo davanti alla gente. Quello che conta per me non è a quanti piaccia ma a chi.”

La vicenda portò però ad una frattura insanabile tra l’artista e le istituzioni: dopo aver visto rifiutata la sua ratifica a professore dell’Accademia di belle arti, Klimt si rifugiò nella sua arte, mostrando un atteggiamento sempre più ripiegato in se stesso a volte espresso in ira allegorica, ma, molto più spesso, in un silenzioso isolamento artistico.

Nella Filosofia e nella Medicina, Klimt interpretò il tema proposto dal Ministero, “Il trionfo della luce sulle tenebre dell’ignoranza”, in senso contrario alla fiducia nelle capacità razionali dell’uomo tipica del conformismo positivista borghese del tempo alimentando, così, un clima di polemica e critica generalizzata. Anziché la celebrazione del potere risolutorio della scienza, fu rappresentata, infatti, la sua tragica impotenza a liberare il mondo dal dolore: i dipinti dichiaravano che la filosofia non può far comprendere all’uomo il suo destino, né il progresso medico può sconfiggere la morte, e che il diritto non è che la legittimazione della violenza e non può difendere né dal sopruso né dalle Furie, le dee della vendetta e della colpa.

Fu proprio la Giurisprudenza l’autentica pietra dello scandalo. In quest’opera, infatti, Klimt ritrasse non il trionfo di un’importante istituzione sociale, bensì una forza cieca e crudele, spietata di fronte ai volti impassibili dei giudici.

Gustav Klimt, Giurisprudenza, 1900 (opera distrutta nel 1945)

Gustav Klimt, Giurisprudenza, 1900 (opera distrutta nel 1945)

 

La tela si presenta divisa in due parti: in quella superiore risiedono le tre componenti ideali della giustizia, la Verità, la Giustizia e la Legge, imbalsamate in un mosaico bizantino, al disotto sono poste le teste disseccate dei giudici e, nella parte bassa, si svolge il dramma vero e proprio della punizione.

Tre furie, ritratte come delle belle e lascive donne fatali fin de siècle, presiedono alla violenta vendetta a cui è sottoposto un vecchio indifeso che attende il verdetto come in un incubo kafkiano.

Molti hanno voluto scorgere nella figura del vecchio un’allusione alla figura dello stesso Klimt, colpito dall’incomprensione del pubblico e dal rifiuto dei suoi stessi committenti.

Klimt, infatti, si sentì sottoposto ad un giudizio ingiusto ed inappellabile: “attraverso ripetute allusioni il ministero mi ha fatto capire che sono diventato motivo di imbarazzo. Ma per un artista, nel senso più elevato del termine, non c’è niente di più penoso di creare delle opere, e per questo ricevere un compenso, da un committente che non gli offra col cuore e con la ragione il suo pieno appoggio.” Queste parole possono aiutarci a comprendere lo sfrontato pessimismo di cui è improntata quest’opera che fu l’ultimo impegno pubblico di Klimt ad essa, infatti, non seguirono altre commesse statali.

Questo pannello segnò un’evoluzione nell’arte di Klimt: il definitivo abbandono di quei valori pittorico-atmosferici che permeavano ancora Filosofia e Medicina, e la scelta della stilizzazione della superficie a collage di motivi ornamentali, di un colore uniforme e del tutto atimpressionista. La macchina scenografica ed illustrativa dell’allegoria si è assottigliata in un tessuto di incastri, in un puzzle ambiguo e ossessivo: l’ornamento diventa struttura e messaggio.

La reazione, in questo caso, raggiunse gli apici della violenza. Il 3 aprile 1905 Klimt, che oramai aveva deciso di rinunciare all’incarico, si offrì di ricomprare dalla Stato austriaco le sue opere: “ne ho abbastanza della censura adesso faccio da me. Desidero liberarmene. Desidero liberarmi da tutte queste stupidaggini che mi ostacolano e mi impediscono di lavorare.”

Klimt, con l’appoggio del suo mecenate August Lederer, riuscì a riacquistare le sue tele che, sul finire della seconda guerra mondiale dopo varie vicissitudini, vennero nascoste nel castello di Immendorf, di proprietà della famiglia Freudenthal.

In seguito ad un incendio, probabilmente appiccato dalle truppe tedesche in fuga, i quadri andarono completamente distrutti: si concludeva così, con una sorta di rogo sacrificale, uno scandalo che aveva alimentato Vienna per numerosi decenni.

Una vicenda, questa, che di per sé è esemplificativa del clima viennese di fine secolo; alla fine gli opposti si ricongiungono: amore e morte, eros e thanatos, generazione e distruzione.

Gustav Klimt, L'ostilità delle forze avverse (Malattia, Follia e Morte e le tre Gorgoni), Fregio di Beethoven, 1902

Gustav Klimt, L’ostilità delle forze avverse (Malattia, Follia e Morte e le tre Gorgoni), Fregio di Beethoven, 1902

 


Antoni Gaudì: un geniale interprete dell’orgoglio catalano

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Antoni Gaudì, Casa Batlò – particolare dei comignoli, 1904-1907

“L’intelligenza dell’uomo può attuarsi solamente nel piano, è a due dimensioni: risolve equazioni a una incognita, di primo grado. L’intelligenza angelica è a tre dimensioni, si attua direttamente nello spazio.”

(Antoni Gaudì)

Geniale visionario, profetico veggente, portentoso ed eclettico, Antoni Gaudì fu una delle personalità più ispirate e creative dell’architettura modernista di fine Ottocento.

La sua opera, così strabiliante e prodigiosa, affascinò numerosi artisti proprio per la sua capacità di unificare un’inaudita libertà formale con un’esatta padronanza delle tecniche costruttive. In questo senso egli fu l’ultimo degli antichi ed il primo dei moderni, l’artefice di un mondo in cui l’intuito si intrecciò alla ragione, anticipatore di molte invenzioni delle avanguardie novecentesche.

Un’architettura fatta di forme organiche e zoomorfe, di terra e di colore, di teoremi celesti e di pietre viventi, un linguaggio pregno di devozione per la natura e d’amore per la terra natia, di grande sapienza tecnica e di straordinarie doti spaziali, di sublimità decorativa e di magmatico simbolismo.

Gaudì seppe creare un suo personale mondo, un mondo serrato e chiuso che, sebbene si offrì come stimolo, tuttavia non potè essere un esempio orientato per la creazione di una scuola o di un movimento.

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Antoni Gaudì, Parc Güell – particolare della scultura di una salamandra, 1900-1914

Antoni Gaudì nacque nel 1852 a Reus, un piccolo centro catalano poco distante da Terragona. In questi anni la Catalogna viveva una stagione di straordinaria vitalità economica, culturale, sociale e politica, in parallelo al contemporaneo declino della Spagna a livello di potenza internazionale: una terra che non si era mai abbandonata al potere accentratore di Madrid e che era riuscita a conservare una certa autonomia, divenendo, nella seconda metà dell’Ottocento, la regione più avanzata della Spagna.

L’orgoglioso rinascimento della Catalogna e della sua capitale, Barcellona, venne definito con il termine Renaixença, indicando un rinnovato orgoglio dei valori della catalanità tanto da promuovere il catalano come lingua della cultura.

Quando, nel 1869, il giovane Gaudì giunse a Barcellona per intraprendere i suoi studi di architettura, si trovò dinnanzi ad una città che stava crescendo ad un ritmo vertiginoso, nell’irrefrenabile cammino verso una società industriale e moderna.

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Antoni Gaudì, Casa Batlò – particolare dell’interno, 1904-1907

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, il Modernismo (la versione catalana dell’Art Nouveau) trasformò la città di Barcellona.

La volontà di rompere con la tradizione passata, l’ansia di rinnovamento e di modernità, la ricerca di uno stile nuovo, permearono tutte le arti. In tal senso l’architettura si pose come esempio di arte ai suoi massimi livelli, riuscendo ad integrare la frenesia costruttiva all’urgenza decorativa.

In questo panorama, anche e soprattutto grazie allo sviluppo di una danarosa classe di committenti borghesi, Gaudì si distinse tra gli architetti dell’epoca , per il personalissimo stile e l’assoluta originalità delle sue opere.

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Antoni Gaudì, Casa Milà (detta La Pedrera) – particolare dei comignoli, 1905-1912

Nel 1878, poco dopo la laurea in architettura, Gaudì fece la conoscenza di Eusebi Güell, un grande imprenditore e politico, che lo adottò come architetto di fiducia fino alla morte di quest’ultimo nel 1918.

Tra i due nacque un rapporto basato sull’amicizia e sulla stima reciproca: Güell era un mecenate colto e liberale, tanto prodigo nei confronti delle sue dispendiose esigenze costruttive, quanto disponibile a condividere le eccentriche scelte estetiche di Gaudì.

L’arte di Gaudì potè così avvalersi, per la sua affermazione, di questo clima mondano e borghese, culturalmente vivace ed economicamente spensierato, dove, nella cornice di un rinnovato scenario internazionale, un fervente catalanismo cercava in mitici orizzonti la sua legittimazione storica.

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Antoni Gaudì, Finca Güell – particolare del cancello col dragone, 1884-1887

Antoni Gaudì non fu un intellettuale od un teorico: non pubblicò manifesti, articoli o dichiarazioni di intenti, nè tenne conferenze pubbliche. Il suo pensiero si tradusse esclusivamente nella sua arte e nella sua intuitiva capacità di trovare le relazioni tra le cose, in un’insolita ed eccezzionale sintonia con il mondo della natura.

“Originalidad es volver al origen”, affermava spesso Gaudì, intendendo che il presupposto delle realizzazioni umane si attua nel percorrere a ritroso il cammino della Creazione: per proseguire l’opera della Natura è necessario accordarsi alle sue leggi interiori, poichè “la Creazione continua incessantemente per mezzo degli uomini; l’uomo non crea.”

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Antoni Gaudì, Sagrada Familìa – particolare dell’interno, iniziata nel 1882

“Ogni volta che entro nel recinto della Sagrada Familìa provo la stessa sensazione di uscire dal tempo… Da quel momento mi vedo entrare nell’ambito in cui appare soltanto un’ala spiegata per metà, che in modo insolito è sorta dal seno della terra, in cui giace quello che manca della colossale proporzione del tutto.”

(Joan Maragall)

Negli ultimi anni della sua esistenza, Gaudì fu sempre più ossessionato dalla costruzione della Sagrada Familìa, un’opera infinita che, pian piano, venne a catalizzare e a catturare tutte le energie dell’artista. Essa si impose come una sorta di imperativo etico e religioso nella vita di Gaudì: da opera architettonica si trasformò, ben presto, in un omaggio a Dio, un altare perpetuo alla grandezza del Creatore.

Antoni Gaudì trascorse gli ultimi mesi di vita  in un misero alloggio allestisto presso il cantiere della Sagrada Familìa, sempre più solitario ed isolato dal mondo.

Nel 1926 venne investito da un tram, durante un suo quotidiano tragitto per partecipare alle funzioni religiose in una chiesetta limitrofa. Scambiato per un barbone, venne trasferito all’ospedale dove morì pochi giorni dopo.

Gaudì morì senza lasciare discepoli: figura a metà tra il mito e la santità, avrà numerosi estimatori, imitatori ed esegeti che, spinti da una fanatica devozione, ne raccolsero le oracolari sentenze.

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Antoni Gaudì, Casa Batlò – particolare della facciata esterna, 1904-1907

Le sue opere – disse Salvador Dalì, un altro grande artista catalano – si caratterizzarono per il “carattere nuritivo, commestibile di questa specie di case, le quali non sono altro che le prime case commestibili, i primi e unici edifici erotizzanti, la cui esistenza implica questa funzione urgente e così necessaria all’immaginazione amorosa: poter realmente mangiare l’oggetto del desiderio.”

(Salvador Dalì, Della bellezza terrificante e commestibile dell’architettura Modern Style, numero 3 della rivista Minotaure, 12 dicembre 1933)

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Antoni Gaudì, Parc Güell – particolare dei mosaici, 1900-1914



Vittorio Corcos: sogno di una Belle Époque

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Vittorio Corcos, In lettura sul mare, 1910

 

Un nome quasi sconosciuto, adombrato dai più noti Boldini, Sargent, de Nittis, Bonnat e Signorini, ma che, come questi, si ritrovò ad essere l’interprete dell’incanto di un’epoca che si andava volgendo verso la modernità.

Il ricordo di Vittorio Matteo Corcos, pittore prolifico e versatile, rimane, infatti, legato alla sua attività di ritrattista mondano, compiacente interprete della sofisticata e vezzosa ricca borghesia di fine Ottocento.

In un tempo in cui si avvertiva il desiderio di autocelebrare il proprio status, chi ne aveva le possibilità cercava un artista per rendersi immortale: ceti emergenti, dame della nobiltà, re e regine, furono i protagonisti delle tele di Corcos, istantanee di una clientela esclusiva e selezionata.

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Vittorio Corcos, L’incontro, 1888

Nato nel 1859 a Livorno, dimostrò, fin da giovane, una spiccata predisposizione per l’arte.

Frequentò le scuole di Giuseppe Baldini, primo maestro di Giovanni Fattori, e di Domenico Morelli per poi trasferirsi, nel 1880, nella ville lumière, la capitale del gusto e dello stile.

A Parigi Corcos si inserì con successo nell’elite artistica, affermandosi nei salotti più prestigiosi della città.

La sua pittura brillante e piacevole allo sguardo gli fruttò numerose commissioni e consolidò la sua fama di autore di ritratti.

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Vittorio Corcos, La morfinomane, 1899

Le mode, le pose, gli eccessi, la vita pubblica e quella privata, i giochi, lo svago, tra vanità e lusso, alcool e morfina, vengono decantati nelle opere di Corcos che, audace e spavaldo, si spinse a ritrarre eroine sull’orlo della perdizione come ne La morfinomane.

L’opera di Corcons mette in mostra vizi e virtù della modernità, le ambiguità di una borghesia fiduciosa nel progresso dai risvolti delittuosi e torbidi: la frivola euforia della mondanità ove già serpeggia il virus di un malessere che sfocerà, poi, nel dramma della Grande Guerra.

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Vittorio Corcos, Sogni, 1896

La sua maniera dolce e ben finita divenne l’emblema di questo mondo dalle belle apparenze tanto che Sogni, opera del 1896, fu assunta come icona dell’atmosfera di fine secolo, sospesa tra sogni dorati e una sottile inquietudine.

Una bella ragazza, seduta su una panchina, ci guarda senza vederci, tutta assorta nei suoi pensieri; le gambe accavallate, un braccio a sorreggere il mento, accanto a lei un ombrellino, il cappello di paglia, tre libri e una rosa che va sfiorendo.

A lungo la critica si interrogò sui reconditi sogni di questa fanciulla graziosa dalle labbra carnose: la pena di un amore morto o il fremito di uno nascente? Desideri ardenti o torbide intenzioni? Non avremo mai una risposta, certo è che, al suo apparire, il quadro destò un notevole sconcerto ed assicurò a Corcos di sopravvivere all’oblio che fagocitò il resto della sua opera.

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Vittorio Corcos, Il cucciolo, 1899

Accanto al fortunato filone che lo rese celebre fatto di crinoline, scene zuccherose e giovinette sospese tra l’innocenza ed il peccato, Corcos diede prova della sua abilità dedicandosi anche a quadri di carattere sacro e religioso, oltre ad una produzione che comprendeva immagini gioiose della vita rustica, tratte dai modelli francesi di Millet e di Breton.

I soggetti affrontati da Corcos riflettono le suggestioni letterarie del simbolismo e del naturalismo d’oltralpe che, in Italia, trovava i suoi corrispondenti in Carducci, Pascoli e d’Annunzio, autori che Corcos frequentò personalmente attraverso il cenacolo del “Marzocco”.

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Vittorio Corcos, In giardino, 1892

Pittore delle bellezze femminee, capace di spaziare dalla malizia dei ritratti delle ricche maliarde alla simpatia dei ritratti di amicizia, dall’introspezione psicologica alla compostezza dei ritratti ufficiali, Vittorio Corcos finì con il rimanere incatenato all’immagine di un mondo fatuo e  patinato attraverso il quale era divenuto così celebre.

“Chi non conosce la pittura di Vittorio Corcos? Attenta, levigata, meticolosa, ottimistica: donne e uomini come desiderano d’essere, non come sono.”

(Ugo Ojetti, 1948)

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Vittorio Corcos, Guardando il mare

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Vittorio Corcos, Sul balcone

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Vittorio Corcos, Pomeriggio in terrazza


Giovanni Boldini: il pittore mondano

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“Quella della Belle Époque fu una società che visse inconsapevolmente su un campo minato”

(Paul Morand)

Giovanni Boldini, Ritratto della Marchesa Luisa Casati Stampa, 1914

Giovanni Boldini, Ritratto della Marchesa Luisa Casati Stampa, 1914

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento l’Europa sembrava attraversare il suo periodo più fulgido e grandioso: un’età gaudente dove l’espansione economica correva, di pari passo, con il ritmo frenetico dello sviluppo della tecnica, degli stili e dei gusti artistici.

La parola d’ordine del momento era novità. Una smania del nuovo in quanto nuovo, una pretesa sterile e assurda, che, oltre ad alimentare la vendita di prodotti moderni, finì con l’intensificare i cambiamenti in campo filosofico ed artistico sotto l’egida imperante di una moda capricciosa e volubile.

Giovanni Boldini, Concersazione al caffè, 1877-1878

Giovanni Boldini, Concersazione al caffè, 1877-1878

Parigi fu il cuore pulsante di questa corsa in avanti che la società del tempo stava compiendo: la ville lumière con i suoi teatri, i suoi bistrot, i suoi caffè e le sue luci risplendenti, incarnava il simbolo di quest’epoca mondana e febbrilmente gioiosa.

Un’euforia collettiva, una fantasmagorica parabola di nuovi fenomeni di costume: dalle esposizioni universali ai grandi magazzini, dalle vacanze al mare alle gare sportive, dalle corse automobilistiche ai voli in aeroplano.

Il tempo pareva scandito da una concezione eraclitea dove a prevalere era il momento sulla durata e sulla stabilità: la realtà non è un essere ma un divenire, non uno stato, ma un evento.

Giovanni Boldini, Ritratto della principessa Marthe-Lucile Bibesco, 1911

Giovanni Boldini, Ritratto della principessa Marthe-Lucile Bibesco, 1911

In questa Parigi spumeggiante, sensuale, frivola e gaudente giunse, nel 1871, Giovanni Boldini, uno sconosciuto ferrarese pronto a conquistare la città, riscattandosi da una sorte che lo aveva defraudato, alla nascita, di fascino, altezza e ricchezza.

Italiano di Ferrara, dove nacque il 31 dicembre 1832, e profondamente legato alla tradizione pittorica del suo paese, si tuffò nella scalpitante modernità parigina per divenire il pentre mondain per eccellenza, il più parisien fra i tanti italiani che emigrarono a Parigi in quegli stessi anni.

Giovanni Boldini, L'amaca

Giovanni Boldini, L’amaca

“Piscia quadri quasi ridendo”, diceva di lui Diego Martelli, sottolineando l’approvazione che il little italian riscuoteva: paesaggi della Senna, vie e carrozze di Parigi, cavalli bianchi impennati o neri e furenti, ma soprattutto ritratti, ritratti di colleghi pittori, di musicisti, di politici e di donne, contesse, attrici o amanti.

Le donne, protagoniste indiscusse della Belle Époque, trovarono in Boldini un interprete d’eccezione, capace di raccontare questa nuova femminilità ritrovata fatta di giochi di seduzione e di ambiguità, di vita pubblica e di vita privata dai risvolti torbidi e delittuosi.

“La donna è senza dubbio una luce, uno sguardo, un invito alla felicità, e talvolta il suono di una parola; ma soprattutto è un’armonia generale, non solo nel gesto e nell’armonia delle membra, ma anche nelle mussole, nei veli, negli ampi e cangianti nembi di stoffe in cui si avvolge, che sono come gli attributi e il fondamento della sua divinità.” Così Charles Baudelaire decantava, nel 1863, l’essenza della femminilità moderna, parole che paiono anticipare le altere e bellissime donne di Boldini.

Giovanni Boldini, Cléo de Mérode, 1901

Giovanni Boldini, Cléo de Mérode, 1901

Donne che si pettinano, donne alla toeletta, che danzano o si adagiano su morbidi cuscini; donne dai seni piccoli e dalla vita strizzata in rigidi bustini di stecche di balena; donne in abiti vaporosi di chiffon che trascorrono le loro esistenze dorate fra i suoni e i divertimenti di una società fatta, per la prima volta, a loro immagine e somiglianza.

Con una pittura veloce, teatrale e brillante, Boldini immortalò i nomi più in vista dell’high society: dalla duchessa di Malborough alla cilena Emiliana Concha de Ossa, consorte del banchiere Arthur Veil-Picard; dalla contessa Gabrielle de Rasty, che rubò il cuore dell’artista, alla rapace e trasgressiva Marchesa Casati Stampa.

Giovanni Boldini, Ritratto di Emiliana Conche de Ossa, 1888

Giovanni Boldini, Ritratto di Emiliana Conche de Ossa, 1888

Femmine sensuali e seducenti, belle fra le belle alle quali Boldini non esitava a rifinire i fianchi, assottigliare i colli, tornire gli zigomi e gonfiare le labbra, attento a lusingare la vanità di queste gentili signore.

Bravissimo, ma altrettanto furbo, il ferrarese aveva infatti ben compreso che un ritocco al naso e un seno in trasparenza, mescolati con un quintale di cipria e di bistro, erano gli ingredienti ideali per assicurarsi l’amore delle sue donne e quello dei loro portafogli.

Giovanni Boldini, Ritratto del Conte Robert de Montesquiou, 1897

Giovanni Boldini, Ritratto del Conte Robert de Montesquiou, 1897

Nella sua casa-atelier in Boulevard Berthier si accalcavano ricche dame ma anche uomini illustri, entrambi smaniosi di possedere un ritratto firmato Boldini.

In una società che aveva eletto l’apparenza a simbolo di potere e di affermazione, titolati vanesi e vanagloriosi borghesi erano disposti ad esibirsi nelle pose più inusuali davanti al cavalletto di Boldini, pur di regalare alla tela il fascino di una realtà alla moda.

Lo straordinario successo di Boldini come ritrattista fu merito anche del suo stile inconfondibile, consono al gusto glamour del tempo, ma carico di una personalissima intuizione pittorica che, nelle sferzate vibranti di luce e di colore, seppe anticipare di mezzo secolo l’informale europeo.

La sua sprezzante facilità pittorica, l’aggressività dirompente dei suoi personaggi, la sua eccitazione continua, fecero di Boldini un caso unico, almeno fra gli italiani suoi contemporanei.

Giovanni Boldini, Coppia in abito spagnolo con due pappagalli, 1873

Giovanni Boldini, Coppia in abito spagnolo con due pappagalli, 1873

La sua pittura trasuda bravura e volgarità: un prodigio tecnico che, volutamente, non tocca mai il cuore.

Tra Boldini e i suoi soggetti vi è sempre una decisa e netta distanza sentimentale: quella società che lo volle e lo fece grande, venne sapientemente usata e sottilmente denigrata attraverso le abili setole del suo pennello.

“Boldini è stato il pittore della sua epoca, dipingeva le donne coi nervi a pezzi, affaticate da questo secolo tormentato. Le sue prostitute amoreggianti, attorcigliate in guaine di seta dalle increspature fosforescenti, dai corsetti infiorettati, le gambe impazzite, epilettiche, le braccia allungate, terminanti con mani frangiate come l’uva – queste visioni folgoranti e zigzaganti come emanazioni di calore, tutti questi brividi, questi tremori, queste contrazioni, sono in sintonia con quest’epoca di nevrosi.”

(George Gursat)

Giovanni Boldini, Ritratto di Lady Lina Bilitis con due pechinesi, 1913

Giovanni Boldini, Ritratto di Lady Lina Bilitis con due pechinesi, 1913

Giovanni Boldini, Donna al piano, 1871-1879

Giovanni Boldini, Donna al piano, 1871-1879

Giovanni Boldini, La signora in rosa, 1916

Giovanni Boldini, La signora in rosa, 1916


John Singer Sargent e Vittorio Corcos: tutta colpa di una spallina

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Per una spallina mollemente scivolata su una spalla, John Singer Sargent gettò scandalo nella Parigi benpensante di fine secolo.
Correva l’anno 1884 quando al Salon espose il ritratto incriminato: la modella era la bellissima Virginie Amélie Avegno, moglie del ricco banchiere parigino Pierre Gautreau, una delle esponenti più in vista dell’alta società.

“Un solo movimento e potrebbe rimanere nuda”, scriveva a proposito Le Figaro: una sola spallina in grado di turbare e stuzzicare le represse fantasie del pubblico.

John Singer Sargent, Ritratto di Madame X, 1884

John Singer Sargent, Ritratto di Madame X, 1884

Sargent, sconvolto da queste reazioni inattese, cercò di rimediare: rialzò la spallina e cambiò il titolo del dipinto in Ritratto di Madame X tentando così di elevare la figura di Virginie a generico simbolo dell’erotismo femminile.

Tentativi del tutto inutili che non placarono le chiacchiere attorno alla figura di Virginie, una donna che aveva puntato tutto sulla sua bellezza per emergere nel bel mondo tenendo, a volte, una condotta non proprio irreprensibile.

La tela aveva svelato pubblicamente la natura amorale di Virginie della quale, fino ad allora, si era solamente mormorato nei salotti: il pettegolezzo era sulla bocca di tutti e costrinse lo stesso Sargent a lasciare la bigotta Parigi per la più libertaria Londra.

Vittorio Corcos, Ritratto di Lina Cavalieri, 1903

Vittorio Corcos, Ritratto di Lina Cavalieri, 1903

Quasi vent’anni dopo, Vittorio Corcos, altro celebre interprete della Belle Époque, fece un ritratto molto simile a Lina Cavalieri senza destare, però, il medesimo scalpore.

Le due donne furono ugualmente immortalate in piedi, con il volto di profilo, fasciate in un abito scollato che metteva in risalto la loro avvenente silhouette, da cui penzolava, ammiccante, una spallina: rappresentazioni di due donne avvenenti e sensuali, che si proponevano con orgoglio allo sguardo ammirato degli spettatori.
Anche in questo caso la modella del ritratto non è anonima, ma, a differenza di Madame Gautreau donna sposata della buona società, Lina Cavalieri apparteneva al mondo dello spettacolo, una cantante che per mestiere calcava i palcoscenici, alla quale era dunque concesso di esibirsi senza troppi rumori.

Giovanni Boldini, Il cappellino nuovo (Ritratto di Lina Cavalieri)

Giovanni Boldini, Il cappellino nuovo (Ritratto di Lina Cavalieri)

Definita da Gabriele D’Annunzio “la massima testimonianza di Venere in Terra”, Lina Cavalieri, figlia di un’umile sarta e di un architetto caduto in disgrazie, scalò le vette della società non grazie ad un matrimonio prestigioso, come fece invece Virginie, ma esclusivamente sfruttando le sue doti canore unite ad alla sua stupefacente bellezza.

Più libera di affermare se stessa e la propria sessualità, la Cavalieri non poteva certo turbare per una spallina abbassata; lei che aveva ricevuto circa ottocentoquaranta proposte di matrimonio, si era sposata ben cinque volte e, tra diversi amori e amanti, preferì restare da sola per dedicarsi interamente alla sua arte senza dover dipendere da nessuno, specialmente da un uomo.

“Amo gli uomini come amo la vita, come amo la natura, ma penso che, nella maggioranza dei casi, questo compagno della nostra esistenza è assai inferiore a quel che crede o sente di valere.”

(Lina Cavalieri)

Giovanni Boldini, Ritratto di Lina Cavalieri

Giovanni Boldini, Ritratto di Lina Cavalieri

 


Arthur Rackham: le immagini della fantasia

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Arthur Rackham, Illustrazione per "Peter Pan nei giardini di Kensington", 1906

Arthur Rackham, Illustrazione per “Peter Pan nei giardini di Kensington”, 1906

Se credi che Peter Pan sia stato l’unico bambino che mai abbia voluto fuggire, significa che hai del tutto dimenticato la tua infanzia.”

(James Matthew Barrie, “Peter Pan nei giardini di Kensington”, 1906)

Arthur Rackham, Illustrazione per "Peter Pan nei giardini di Kensington", 1906

Arthur Rackham, Illustrazione per “Peter Pan nei giardini di Kensington”, 1906

Ritenuta per molto tempo una fra le arti minori, la sorellastra ordinaria della più nobile pittura, l’illustrazione del libro conobbe una splendida fioritura negli ultimi decenni dell’Ottocento.

La patria principe di questo rinnovato interesse fu l’Inghilterra, dove lo sviluppo di nuove tecniche di stampa e la riforma estetico-sociale promossa da William Morris contribuirono ad incrementare la produzione di libri illustrati.

Furono soprattutto i libri per l’infanzia a beneficiare del lavoro di numerosi artisti che si prestarono, senza tema di dedicarsi ad un’opera di secondaria importanza, alla realizzazione di splendide immagini atte a sollecitare la fantasia dei fanciulli e, in certi casi, a reinterpretare la realtà fiabesca concepita dagli scrittori.

Arthur Rackham, Illustrazione per "Rip Van Winkle", 1905

Arthur Rackham, Illustrazione per “Rip Van Winkle”, 1905

Una delle personalità di maggior successo, fra gli artisti e gli illustratori inglesi del primo Novecento, fu Arthur Rackham.

In quasi quarant’anni di carriera egli realizzò circa centocinquanta libri illustrati, tremila illustrazioni a colori e in bianco e nero, oltre a numerose tele ed acquerelli.

Arthur Rackham, illustrazione per "The Wonder Book", 1920

Arthur Rackham, illustrazione per “The Wonder Book”, 1920

Nato a Londra nel 1867, nel quartiere meridionale di Lambeth, quarto dei dodici figli del segretario legale londinese Alfred Thomas Rackham, Arthur dimostrò fin da piccolo una certa predilezione per il disegno.

Interessato a prendere nota di tutto ciò che lo circondava, egli visitava spesso il Museo di Storia Naturale o il British Museum riproducendone gli esemplari, oppure se ne andava in giro per la campagna in bicicletta a realizzare oli ed acquerelli.
Dopo un soggiorno di otto mesi in Australia, all’età di sedici anni, Rackham tornò a casa deciso a diventare un artista.

Trovò invece impiego nell’ufficio di assicurazione contro gli incendi di Westminster: otto lunghi e tormentati anni nei quali alternava al noioso lavoro impiegatizio la frequentazione ai corsi serali della Lambeth School of Art.

Arthur Rackham, illustrazione per Undine, 1909

Arthur Rackham, illustrazione per Undine, 1909

La sua prima grande occasione si presentò quando l’editore Dent gli commissionò un’edizione di The Ingoldsby Legends, pubblicata nel 1898.

Critica e pubblico furono concordi nel decretare un nuovo talento nel mondo dell’illustrazione: il gusto per il grottesco ed il fantastico unito ad una linea fluida dalle movenze art nouveau, si dimostrarono la cifra stilistica peculiare della penna di Rackham.

Arthur Rackham, Illustrazione per "Sogno di una notte di mezza estate", 1909

Arthur Rackham, Illustrazione per “Sogno di una notte di mezza estate”, 1909

A questa seguirono numerose le richieste per l’illustrazione di fiabe, ma anche di libri per adulti, come ad esempio Sogno di una notte di mezza estate, Undine, Il Rhinegold e la valchiria e I Racconti di Edgar Allan Poe.
Pignolo fino all’eccesso nei dettagli e nella ricerca di una qualità di stampa assai elevata, i libri di Rackham costituivano esemplari lussuosi e di pregio, forse troppo ricchi ed elegantemente elaborati per essere sfogliati da dei bambini: vere e proprie opere uniche da considerarsi più come cartelle rilegate di immagini.

Nonostante l’aspetto posato e l’atteggiamento equilibrato, Arthur Rackham era un uomo dalla fantasia strabordante: creature mostruose, alberi mirabilanti, elfi, orchi e fate popolavano le sue tavole, affascinato com’era dai personaggi fantastici delle leggende nordiche da cui traeva ispirazione.

Arthur Rackham, Illustrazione per "Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie", 1907

Arthur Rackham, Illustrazione per “Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie”, 1907

Sicuramente il libro di maggior successo da lui illustrato fu Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie: un’interpretazione magistrale deliziosamente e riccamente liberty.
Rackham, che amava molto questa storia che il padre soleva leggeva a lui e ai suoi fratelli, era intenzionato a portare una ventata di novità e di freschezza nel favoloso mondo di Alice. Scelse sua figlia come modella per reinterpretare i disegni originali di Tenniel, e la sua protagonista divenne femminile e raffinata, con un età un po’ più grande di quella immaginata da Carroll.

Da bambina petulante, Alice si trasformò in una giovane adulta dai modi affettuosi, incantevole ed incantata sullo sfondo di una realtà sotterranea ricca di suggestioni neogotiche e preraffaellite.
Il risultato fu un’edizione superba, che non cessa d’incantare adulti e bambini per quel miscuglio di delicata bellezza e di grottesca visionarietà.

Nell’esemplare integrazione tra parola ed immagini, questo testo si dimostra così capace di oltrepassare la realtà ordinaria e di appagare totalmente la fantasia del lettore-osservatore perché, come diceva la stessa Alice, A che serve un libro senza immagini o dialoghi?

Arthur Rackham, Illustrazione per "Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie", 1907

Arthur Rackham, Illustrazione per “Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie”, 1907

Arthur Rackham, Illustrazione per "Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie", 1907

Arthur Rackham, Illustrazione per “Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie”, 1907


La penna affilata di Oscar Wilde e il disegno tagliente di Aubrey Beardsley al servizio di un’irriverente Salomè

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Aubrey Beardsley, Illustrazione per Salomè, 1893

Aubrey Beardsley, Illustrazione per Salomè, 1893

 

Capita raramente di assistere ad un sodalizio artistico di tale esemplare omogeneità espressiva e di intenti, soprattutto se, come in questo caso, il sodalizio è osteggiato, non voluto, carico di rivalità e di gelosie. Come molte relazioni casuali, però, anche quella tra Wilde e Beardsley produsse un mirabile capolavoro artistico, la Salomè, dove poesia e decorazione raggiunsero incantevoli vette di unione compositiva e strutturale.

Salomè è un dramma in un atto unico, scritto in francese, nel 1891, da Oscar Wilde. L’opera venne pubblicata nel 1893 a Londra e a Parigi e, nel 1894, uscì la traduzione in inglese corredata dalle illustrazioni di Aubrey Beardsley. Le illustrazioni non piacquero molto a Wilde che, conscio della grandezza e finezza rappresentativa di Beardsley, temeva che la sua opera letteraria ne potesse uscire mortificata e messa in secondo piano rispetto all’apparato figurativo.

Ne nacque una querelle artistica che affondava le sue radici nella volontà di autoaffermazione personale di entrambi gli autori. Wilde e Beardsley, infatti, oltre a contendersi la scena artistica, si contendevano anche la presenza nei salotti più civettuoli e à la mode della Londra di fine secolo. Entrambi incarnavano la figura del dandy che eleva se stesso e la sua vita ad opera d’arte, attraverso un narcisistico compiacimento della propria raffinatezza estetica e un atteggiamento eccentrico fortemente caricato e pubblicamente sbandierato.

Aubrey Beardsley, Illustrazione per Salomè, 1893

Aubrey Beardsley, Illustrazione per Salomè, 1893

 

Fu, forse, proprio questo modo comune di sentire la vita e la realtà a porre in perfetta sintonia gli intenti dei due autori, tanto che, nella Salomè, parola scritta e immagine disegnata si compenetrano e fondono creando un’impareggiabile sinfonia.

“L’arte è superficie e simbolo. Chi va oltre la superficie lo fa a proprio rischio e pericolo” – affermava Oscar Wilde nella prefazione di “The Picture of Dorian Gray”. Senza dubbio le elegantissime silhouette in bianco e nero di Beardsley sono l’esatta icona di questa poetica: decorazioni piatte, asimmetriche, superficiali, in netto contrasto con il naturalismo trompe l’oeil, con tutto ciò che è volume o corpo plastico, con le forme massicce, pesanti, sovraccariche, con l’eccesso dei particolari, insomma con la moda dell’epoca vittoriana matura.

Aubrey Beardsley, Illustrazione per Salomè, 1893

Aubrey Beardsley, Illustrazione per Salomè, 1893

 

Salomè è la storia della figlia di Erodiade che, innamorata di Jokanaan (Giovanni Battista), prigioniero del patrigno Erode, decide di danzare in onore di quest’ultimo per avere la testa del Battista. Il soggetto trae ispirazione dai racconti biblici e mette in scena dei temi universali quali l’amore e la morte, il sacro ed il profano. Una storia di desiderio lussurioso e distruttivo che Wilde narra, però, in toni ironici, rendendo fiabesco ed umoristico l’oriente opulento e bizantineggiantenalla Moureau.

Il genio giocoso di Wilde trova voce nei disegni di Beardsley: strani figurini “alla moda” posti ad interpretare una tragedia antica e senza tempo. Il tono grottesco, raffinato ed elegante delle illustrazioni di Beardsley è, infatti, il perfetto contraltare della scrittura tagliente, infantile e cicalante di Wilde.

Aubrey Beardsley, Illustrazione per Salomè, 1893

Aubrey Beardsley, Illustrazione per Salomè, 1893

 

L’opera, al suo apparire, provocò un grande sdegno fra il pubblico inglese, fu considerata licenziosa ed immorale, tanto che le prove per la sua rappresentazione furono sospese dalla censura nel 1892. L’addetto alla censura dei testi teatrali ritenne l’opera inadatta e la vietò, riesumando una vecchia legge che vietava di rappresentare a teatro personaggi biblici. Lo stesso Times, il 23 febbraio 1893, definì la Salomè una “bizzarra pubblicazione, una composizione in sangue e ferocia, morbosità, bizzarria, un prodotto repellente e blasfemo che adatta il linguaggio biblico a situazioni che ne rovesciano la sacralità.”

Aubrey Beardsley, Illustrazione per Salomè, 1893

Aubrey Beardsley, Illustrazione per Salomè, 1893

 

La frivolezza della composizione fu, ben più degli argomenti erotici trattati, ciò che scandalizzò il pubblico inglese: il riso era senza dubbio un’arma letale per un establishment, come quello vittoriano, così ferocemente serioso. La penna di Wilde, infatti, colora questo dramma delle passioni umane di toni volutamente sarcastici e dissacratori: i personaggi paiono tanti burattini orchestrati dalla regia lucida e cinica del drammaturgo. Personaggi che hanno risonanze da commedia borghese: Salomè è la capricciosa che pretende l’impossibile dal maturo spasimante (in questo caso Erode) e lo spolpa alla maniera di una qualche femme fatal.

I personaggi non hanno storia, non vengono descritti nelle loro caratteristiche somatiche, nei loro tratti distintivi: sintetizzati in un nome si disperdono in questa lapidaria nominazione ed i loro corpi, non rappresentati, vengono suggeriti ed elusi al contempo da un’ambigua simbologia di immagini.
In tal senso si può affermare che il testo di Wilde e la traduzione grafica di Beardsley tendono verso una forma di autotelismo, dove la parola e il segno fanno riferimento a loro stessi e a null’altro, sono essi stessi oggetto d’arte, cifra estetica che non vuole significare altro da sé.

E in questa autoreferenzialità e introversione, l’arte affonda dentro di sé, ma più spesso contro di sé, il proprio mito, in una deriva che va verso l’informale: una belle époque che veniva tramutando alla modernità. Wilde, con quest’opera, si fa egli stesso avanguardia della modernità: egli ne è il protomartire,il vero Jokanaan a cui fu poi mozzato il capo.

Aubrey Beardsley, Illustrazione per Salomè, 1893

Aubrey Beardsley, Illustrazione per Salomè, 1893

 


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